sabato 22 dicembre 2007

Spunto programmatico

In attesa di cominciare a parlare di progetti ed esempi concreti, che è ciò che ci interessa più da vicino, per introdurre un primo spunto di riflessione, riportiamo con un miserrimo copiaincolla due nostri intervento presso l'autorevole blog di Giorgio Muratore, Archiwatch.it Si parlava in quell'occasione di maestri ed esempi da seguire e, inevitabilmente, come quasi sempre succede in queste occasioni, si è finiti a discutere del modo in questi vengono proposti e affrontati nelle scuole di architettura. Noi, profondamente convinti della fondamentale importanza della questione della qualità della formazione sia da parte della domanda che da quello dell'offerta in ogni campo lavorativo, oltre che ancora addentro per motivi curricolari al sistema accademico, crediamo quindi assolutamente opportuno partire proprio da questo punto per il nostro percorso.

"Parlar bene di" è uno sforzo utile e forse nuovo, soprattutto in un luogo e in un momento storico in cui il tirar acqua al proprio mulino, vuoi per orgoglio teoretico vuoi per mero interesse professionale ergo economico, è attività gettonatissima e quasi sport nazionale all’ordine del giorno. Io credo che però finché ci si limiterà a “parlar bene di” o a “parlar male di” e, soprattutto, finché nelle facoltà di architettura la parte “teorica” dei laboratori di progettazione sarà proporre un campionario di esempi da imitare (come succede nel 90% de casi), credo che non ne usciremo mai. Finché sentiremo x incensare y oppure y gettare guano su w, rimarremo al punto di partenza: è un sogno immaginare una scuola di architettura in cui si insegni a problematizzare delle questioni e a guardare degli esempi in maniera critica, senza per forza idolatrare questa o quell’altra archistar? In cui, se devo progettare una casa unifamiliare, mi insegnano COS’E’ una casa unifamiliare proponendomi criticamente delle soluzioni alternative, e NON a copiare una casa fatta da questo piuttosto che da quest’altro? E’ un sogno sperare che la ricerca sulla didattica architettonica in Italia si spinga in maniera seria a isolare delle invarianti per costruire un linguaggio, capace di volta in volta di declinarsi a seconda del background dell’autore, dell’atmosfera ineffabile, eppure percepibile, del luogo (per parlare di gente importante che non si studia nelle scuole…)? Probabilmente allora riusciremmo a evitare l’imperdonabile errore di prendere per oro colato tutto ciò che esce dalla matita di questo o quell’altro, e al contempo di stroncare qualsiasi cosa venga partorita dalla mente di quell’altro. Quindi allora capiremmo l’importanza fondamentale di conoscere Gregotti e Tafuri (soprattutto Tafuri, provate a chiedere a uno studente italiano al terzo anno se sa chi è…), Piano, Rossi, etc., riusciremmo a lodare giustamente le loro opere meglio riuscite, ma avremmo anche il coraggio di dire, per esempio, che lo Zen è una bestialità, che il 90% dei municipi della pianura padana è un patetico e irritante revival rossiano senz’anima e che la spettacolare Chiesa di San Giovanni Rotondo, magnifica esaltazione dell’estro di un grande progettista, probabilmente con lo spirito del luogo e del culto cui è preposta forse non c’entra un granché. Credo che il problema sia questo: la colpa non è tanto di questo o di quello, ma veramente, e non è un luogo comune, penso (opinione personalissima di un laureando qualsiasi) che responsabile di tutto ciò sia un modo di considerare l’architettura e di rapportarsi con essa che ha sì prodotto grandi risultati negli anni, ma ormai ha fatto il suo tempo. Probabilmente c’è bisogno di un “parricidio”, che, bada ben, non è rinnegare il passato e i maestri, ma, anzi, conoscerlo a fondo per porsi l’obiettivo di superarli e di andare oltre, NON di scimmiottarli o peggio, di esserne gli epigoni. Allora forse vedremmo una coscienza architettonica più consapevole e condivisa, concorsi con esiti meno polemici e forse non vedremmo più ascensori sul Vittoriano, morfemi a Vema e via discorrendo. E anche i seguaci dei vari Gregotti, Rossi e compagnia cantante farebbero meno danni...

…un’idea vecchia come il mondo, che però come tanti piani regolatori magnifici lasciati ammuffire in un cassetto perché non conformi a logiche speculative e interessi localistici, non è detto che sia sbagliata, anzi, spesso è la migliore. Come è pur sacrosanto che l’emulazione di opere-evento è stato il motore imprescindibile dello sviluppo dell’architettura e dell’estetica architettonica nei secoli. Il problema però è il livello e il piano dell’emulazione: un conto è, ribadisco, scimmiottare per adesione a un partito morfologico o tipologico che sia, un conto è decontestualizzare e citare un riferimento. Allora credo ci possa essere un punto di contatto, anzi, che sia quello decisivo: e allora torna buono, anzi, necessario, il perdere ore a ridisegnare riferimenti (quello non fa mai male), il più eterogenei possibile, con lo scopo di costituire un repertorio formale dal quale attingere nel modo più imprevisto e imprevedibile. E’ certo un modo di procedere più faticoso e rischioso perché del tutto non lineare, ma di sicuro il più prolifico di conseguenze e sviluppi veramente “novatori”: penso (altra opinione personalissima) che, più di ameboidi, nuvole e quant’altro, questo sia il medium dell’espressione della complessità, grande moloch che imperversa sui testi di urbanistica da una decina d’anni a questa parte. E, cosa più interessante, sono anche convinto del fatto che non sia un modo di procedere così diverso da quello che di volta in volta, nella storia dell’arte e dell’architettura in particolare, ha prodotto quei salti nel futuro che hanno fatto evolvere la ricerca architettonica: penso alla Chiesa del Redentore di Palladio, alla Santa Bibiana del Bernini, alle prime ville di Le Corbusier (pur con tutta la loro carica ideologica), alle opere di Louis Kahn. Di più: credo che non sia poi così diverso, anzi, vedo un’analogia totale, con quanto contenuto e costruito dai contemporanei decostruttivisti, non in tutto ma sicuramente negli esempi più puri e genuini. Senza considerare tutta quella fuffa frettolosamente bollata come decostruttivista solo perché magari vagamente riconducibile a una stereometria non cartesiana o comunque fratturata, penso che il messaggio che ci viene da testi come l’ultimo di Eisenman su Terragni sia assolutamente da recepire, e sia la strada giusta da seguire, non magari nel merito (non ho i titoli per dirlo), ma sicuramente nel METODO. E forse non è un caso che nelle scuole di architettura, o si snobbano autori come Rowe, Alexander, Anderson, Venturi, Eisenman stesso, si buttano insieme nel calderone capolavori e porcate e si bolla il decostruttivismo col marchio d’infamia di vague modaiola e glamour, oppure si propinano il Gehry, il Libeskind, ma come? come oggettini belli da copiare!
Lungi da me con questo il voler fare l’apologo del decostruttivismo, ma mi pareva un esempio calzante di quale sia la distanza tra quello che si fa nelle scuole e quello che invece spinge avanti il dibattito architettonico. Chiudo con una postilla: quando ero all’inizio, ricordo che al primo anno, prima di dare Composizione 1, ho seguito un corso di Caratteri Tipologici e Morfologici dell’Architettura, in cui il titolare, Armando Dal Fabbro, mi parlava, tra le altre cose, di Scuole Grandi di Venezia, di Acropoli di Atene, della Cité de Réfuge di Le Corbusier, di James Stirling, Five Architects e di molte altre cose ancora, e il filo conduttore generale era “Teoria generale del montaggio” di Ejzenstejn; ricordo anche che in un altro canale Adriano Cornoldi teneva un corso analogo in cui riproponeva il modus operandi dei suoi due magnifici libri “L’architettura della casa” e “L’architettura dello spazio sacro”. Bene, ora, nell’università del 3+2, il corso è opzionale…Orate fratres…

Bene, il dibattito è aperto. Chi volesse leggere l'intera discussione, la trova qui.

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