lunedì 31 dicembre 2007

Una piccola speranza

Un solenne e sincero augurio per un sereno e felice 2008 a tutti i visitatori del blog. All'anno prossimo, cioè a domani...

venerdì 28 dicembre 2007

Accanimento ambientalista o solita demagogia?

Augurandovi in ritardo delle felici feste natalizie, cosa che ci siamo colpevolmente dimenticati a tempo debito e di cui chiediamo umilmente venia, leggiamo e pubblichiamo da Il Gazzettino questi inquietanti interventi di Italia Nostra e degli Amissi del Piovego in merito alle ben note vicende dell'Auditorium da noi ampiamente discusse nei post precedenti. Posizioni inquietanti perché veramente fatichiamo a capirne la pertinenza delle ragioni riguardo a questioni di architettura, soprattutto alla stregua degli accadimenti recenti. Posizioni che non fanno altro quindi che non confermarsi altro che uno stucchevole rastrellamento di consensi di natura, ahinoi, tutt'altro che volta all'interesse comune.

L'INTERVENTO

Italia Nostra ha sempre manifestato la propria netta contrarietà alla scelta di collocare l'Auditorium a piazzale Boschetti. Da oltre cinquant'anni la città attendeva che quest'area e quella delll'adiacente ex-Cledca, nella quale sono in corso i lavori per la costruzione di un autosilo, diventassero finalmente una zona a verde pubblico, secondo le indicazioni del piano regolatore di Luigi Piccinato del 1954. La scelta di Piccinato derivava dall'opportunità di salvaguardare il sistema bastionato, in particolare in questa zona preziosissima per la presenza anche della Cappella degli Scrovegni, e dei resti dell'Arena romana.
Purtroppo la scelta di collocare l'Auditorium in piazzale Boschetti, frutto di decisioni recenti che vedono il concorso di Provincia e Comune, nasce da una logica esclusivamente economicistica senza la minima attenzione alle valenze storico - ambientali del luogo.

Di tutti i progetti presentati al concorso per l'Auditorium, l'unico che teneva conto delle imprescindibili valenze dettate dalla storia era quello dell'architetto Alberto Cecchetto. Il progetto, parzialmente ipogeo, aveva infatti il merito di mantenere a verde gran parte dell'area, integrandosi con il contesto. Questo progetto è ancor più meritevole di apprezzamento se confrontato con gli altri, che, per lo più indifferenti alle valenze del luogo, invadono completamente l'area, e potrebbero essere inseriti ovunque, secondo una progettazione "globalizzato" e "omogeneizzato" buono per ogni dove, trascurando totalmente le mura cinquecentesche e gli Scrovegni, e relegando il Piovego, deprivato delle sue valenze storiche, a un' insignificante canaletta, come si può constatare esaminando i progetti presentati che mostrano immancabilmente e significativamente l'Auditorium sempre sullo sfondo di via Trieste.Ora, con la sentenza del TAR che ha escluso il progetto di Cecchetto, la città rischia paradossalmente di trovarsi con l'Auditorium del secondo classificato, Klaus Kada, comunque di forme e volumi fortemente invasivi. A questo punto è necessario scongiurare la tentazione di concludere in tempi stretti con un progetto qualsiasi, al solo fine di dimostrare l'efficienza dell'Amministrazione. Purtroppo, aver voluto a tutti i costi collocare l'Auditorium a piazzale Boschetti ha reso e rende assai più difficile qualsiasi scelta. Questa esperienza dovrebbe consigliare un ripensamento non solo del progetto, che in ogni caso dovrà secondo noi passare per un nuovo concorso, ma anche della zona dove realizzarlo.

Maria Letizia Panajotti

pres. Italia Nostra, Padova


La storia infinita dell'Auditorium
25-12-2007

Il TAR ha bocciato il progetto di Auditorium dell’architetto Alberto Cecchetto e quindi non sappiamo ancora se il Comune realizzerà il suo progetto o quello di Klauss Kada.

Ricostruiamo di seguito le fasi principali della storia di piazzale Boschetti. Nei due piani regolatori di Padova del 1954 e del 1974 del grande urbanista veneto e padovano Luigi Piccinato l’area di piazzale Boschetti e anche quella dell’exCledca, dove ora si sta costruendo un grande garage sopraelevato, erano previste come verde pubblico.

Nel 1989 il sindaco Paolo Giaretta emana una ordinanza che destina, provvisoriamente ma è ovvio, l’area exCledca a parcheggio a raso. L’assessore all’urbanistica è il socialista Sandro Faleschini. Inizia la lunga fase che porta a cambiare la destina zione delle aree ex Cledca e piazzale Boschetti da verde pubblico a cemento di vario genere.

Nel 2004 Vittorio Casarin presidente della Provincia, il sindaco Giustina Destro e la Regione di Giancarlo Galan si mettono rapidamente d’accordo per coprire piazzale Boschetti con 68 mila metri cubi di cemento dichiarando che i soldi incassati dalla vendita dell'area saranno spesi per i cittadini.

Alla fine del 2003 il sindaco Giustina Destro decide di vendere l’area del PP di proprietà comunale e prevista per costruire l'Auditorium, a dei privati. L’asta viene ripetuta in seguito a una denuncia presentata in Procura della Repubblica da Elio Franzin e Ivo Rossi. Intanto, la Sovrintendenza per i beni ambientali e architettonici decide di vincolare le due palazzine in stile liberty di via Trieste che delimitano piazzale Boschetti.

Tutti vedono che quello che deve essere tutelato e valorizzato è il tratto del Piovego che separa le mura cinquecentesche da piazzale Boschetti mentre il Piovego vero e proprio non interessa a nessuno salvo a quattro disperati di Italia Nostra, Legambiente e Amissi del Piovego. E’ evidente che indicando le due palazzine da salvare si è data via libera al cemento sulle rive del Piovego. E mestamente gli ambientalisti e i piccinatiani ritengono di aver perduto un’altra battaglia giusta. E invece nel luglio di quest’anno c’è stata una bella sorpresa.

La Giuria internazionale dichiara vincitore il progetto dell’architetto Alberto Cecchetto che, a detta di Amissi del Piovego e di Legambiente è diverso dalle altre nove colate di cemento lungo e sopra il Piovego. Tale progetto rispetta sostanzialmente il Piovego e il verde pubblico e cerca di valorizzarne il “genius loci”. Sia ben chiaro che la destinazione giusta per l’area Boschetti era quella a verde pubblico decisa da Luigi Piccinato riconfermata poi perfino dall’assessore al cemento Luigi Mariani. Ora abbiamo un’altra prova che l’errore urbanistico produce anche l’errore architettonico e che la mediazione alta e nobile dell’architetto Cecchetto probabilmente cadrà. E chi se ne frega, ci rispondono i cementieri di tutte le bandiere. Ce ne frega eccome.

Continueremo a ripetere quello che da anni affermiamo in tutte le salse. Non vogliamo essere complici con il nostro silenzio.

Elio Franzin - Presidente onorario Amissi del Piovego


Accanimento terapeutico, verrebbe da dire. Forse a questi signori bisognerebbe ricordare che più di trent'anni di distanza dall'ultima variante del piano regolatore non sono pochi, che un fenomeno urbano deve andare avanti e trovare la sua strada cercando di equilibrare salvaguardia, riqualificazione e modernizzazione, e che le favolette sul ritorno all'età dell'oro ormai servono solo a riempirsi la bocca nei comizi (t'è capì?). Beh, ogni altro commento, oltre che già espresso precedentemente, appare inutile.

P.S.: un ringraziamento a Gioven, forumer di skyscrapercity.com, per aver segnalato i due pezzi.

lunedì 24 dicembre 2007

Una conclusione estemporanea

In attesa di ulteriori sviluppi sulla questione giudiziaria, tentiamo di dare una conclusione prenatalizia del tutto temporanea alla questione sull'auditorium.
Frequentando e leggendo vari forum e blog all'interno della rete, oltre che la stampa cartacea che riporta i commenti dei cosiddetti portatori di interesse, il cui interesse però ha ahimè ben poco a che spartire con criteri di qualità architettonica,uno su tutti skyscrapercity.com, appare chiaro come i giudizi sul concorso da parte di chi, profano o no, si interessa a questioni di ordine architettonico, siano vari e di orientamento differente: chi appoggia incondizionatamente questo o quel progetto, chi evidenzia la poca trasparenza delle vicende legate alla giuria, chi mette il dito sull'opportunità del bando in un'area simile e chi mette in discussione i vincoli stessi del bando, vedi le due palazzine liberty sede della SITA. Quello che però balza agli occhi è come spesso e volentieri tali giudizi si arrestino al "mi piace/non mi piace", evitando quasi sistematicamente di mettere a fuoco determinate categorie di giudizio, e di dare quindi effettive valutazioni di carattere qualitativo. Visto che sembra uno sforzo così inedito, e visto che anche la giuria, come si evince leggendo qui, non pare abbia avuto le idee troppo chiare in merito, proviamo a farlo in questa sede, ben consci della totale opinabilità della posizione espressa e, anzi, con lo scopo di aprire una dialettica con chiunque fosse interessato e magari dissentisse.
Onde sgombrare da subito il campo da insinuazioni di sorta, partendo dal presupposto che è chiaro che "piuttosto che niente è meglio piuttosto", pensiamo si sia tutti d'accordo che qualcosa debba andar fatto. Per cui, se l'alternativa è l'ignavia, che inizino a costruire il Kadauditorium anche subito. Però, se parliamo di architettura, non pensiamo che questo sia il miglior criterio possibile, perché altrimenti di questo passo sceglieremo sempre il meno peggio, accorgendoci sempre ex-post di una soluzione migliore e dicendo sempre "Ma, forse era meglio...". Pensiamo tuttavia che in un'occasione come questa si possa aprire una polemica costruttiva sul senso e, se non sul merito, almeno sul metodo, delle architetture che dovrebbero essere costruite nella nostra città, anche perché si tratta ancora solo di progetti, e quindi di idee. Non è mai troppo tardi per sperare che possa innescarsi qualche circolo virtuoso, per cui, hai visto mai...

Scegliamo di non addentrarci nella prima polemica che ha interessato il concorso, ossia la polemica sulla situazione idrogeologica dell'area. Tutto ciò per un semplice motivo, ossia, parafrasando il buon Cecchetto, perché siamo architetti, e non idraulici, e riserviamo quindi considerazioni di sorta a chi ha i titoli per poterle fare. Ci interessiamo quindi a un'altra questione, ben più immediata, anche se altrettanto spinosa.
E'nostra ferma convinzione che il nuovo auditorium di Padova, soprattutto nell'area in cui è stato localizzato il bando di concorso, rappresenti una straordinaria occasione per dotare la città, oltre che di una struttura colpevolmente mancante da anni come tante altre (palasport e nuovo ospedale su tutti), di una nuova icona di alto profilo dal punto di vista architettonico, che vada ad arricchire e modernizzare l'immagine della "capitale" del Nordest in Italia e nel mondo, affiancandosi a quelli che sono da secoli i simboli della città, vale a dire il Santo, il Palazzo della Ragione, gli Eremitani, gli Scrovegni, l'Università. Per questo motivo quindi, senza arrivare agli eccessi di immagini infernali evocate dal maestro Claudio Scimone (membro della giuria), ci sembra che il nuovo edificio, in quanto punto di attrazione, debba necessariamente essere visibile e quindi assolutamente fuori terra. E crediamo che considerazioni relative al luogo, alla vicinanza del Piovego e quindi alla necessità di un intervento in punta di piedi non siano in alcun modo in contrasto con questo aspetto, anzi, rappresentano il lato più affascinante della sfida; e tutte quelle opinioni manichee, da tutto o niente, tipiche di associazioni e comitati che cavalcano solo cavalli di battaglia senza entrare nel merito delle questioni, onestamente ci sembrano, con tutto il rispetto, solo SPAZZATURA. Sì, perché ci sembra quantomeno singolare che Legambiente e Amissi del Piovego (lodevoli in altri frangenti) si scaglino contro auditorium in superficie e monumenti all'11 settembre in nome del ritorno all'età dell'oro pre-automobilistica, quando di fronte all'area dell'auditorium (ex-Cledca)è in costruzione un megaparcheggio multipiano nel silenzio-assenso generale. In pratica ci troveremmo con un auditorium costruito sottoterra per guadagnare pochi metri quadrati di verde (che attualmente, e da decenni, non c'è), e un parcheggio multipiano costruito fuoriterra perché si sa che, a Padova, a piantare un badile esce acqua. La contraddizione ci sembra palese per cui preferiamo non infierire...
Ci sembra quindi assai più interessante considerare, come già evidenziato, l'occasione che questo concorso offriva, ossia quello di realizzare un brano di città in un luogo di connessione, tra l'altro di storica vocazione transitoria e quindi di altissima frequentazione, tra il nucleo medievale della città, cioè via Porciglia e il complesso degli Eremitani, e la city più moderna delle banche e degli edifici direzionali, che in questi anni andrà ad arricchirsi del nuovo Pp1, progettato da Boris Podrecca; brano di città che, oltre alle caratteristiche testè evidenziate, si caratterizza per la spettacolarità e delicatezza del luogo, vale a dire un'ansa del Piovego, per la destinazione d'uso del manufatto, la migliore possibile quanto a possibilità di espressione dell'estro creativo di un progettista, e per un ulteriore vincolo, a nostro parere del tutto opportuno, di riuso e riconversione delle due palazzine liberty poste a lato della strada, che, pur di modesto valore, costituiscono una sorta di ancoraggio, di testa di ponte con la città esistente. In altre parole, appare evidente la fortissima VOCAZIONE URBANA che dovrà avere il nuovo progetto, la cui immagine dovrà in qualche maniera farsi carico di tutte le variabili elencate sinora. E'per questo motivo che il nuovo edificio, oltre a essere fuoriterra, dovrà essere prima che un manufatto, un LUOGO, un FATTO URBANO, che per forza di cose non dovrà però limitarsi ad essere un capriccio, un esercizio di stile magari ardito e ingegnoso, ma incapace di instaurare una dialettica di un certo tipo con il contesto.
Alla luce di queste riflessioni, ci permettiamo di esprimere alcune considerazioni sui 10 progetti finalisti del concorso, o perlomeno sui più significativi, fatta salva comunque un'alta, a nostro avviso, qualità media. Appare evidente come si possano distinguere tra questi due orientamenti precisi, rispondenti anche alla poetica personale di ciascun progettista: chi si concentra quasi esclusivamente al manufatto in sé, considerandolo come un oggetto autoreferenziale che non trova legami con il luogo se non a livello superficiale, e chi cerca di trovare legami con il luogo e di instaurare relazioni forti con il contesto, pur partendo evidentemente da background culturali comnpletamente differenti; nel mezzo troviamo poi alcune proposte ibride, che non prendono una strada ben precisa e rimangono sospese, pur nella qualità della loro proposta.
Scorrendo i vari progetti, appare evidente come ai primi appartengano proposte come quella di Ben Van Berkel, quella di Hermann Hertzberger e quella anche del progetto attualmente vincitore, Klaus Kada. Tre proposte affascinanti e interessanti, considerando il manufatto in sé, ma che prestano il fianco a diversi possibili attacchi se si analizza il legame con il contesto. Entriamo nel dettaglio.
Il progetto di Van Berkel, nella migliore tradizione di UNStudio, è senz'altro il più accattivante tra i progetti in gara, non fosse altro per il clamoroso favore riscontrato tra i visitatori della mostra del Salone.







E'un'edificio dalla volumetria non convenzionale, certo armoniosa e sicuramente spettacolare, ricca di reminiscenze celebri come l'Opera di Sidney, e che ha tra l'altro il pregio non da poco di includere una consistente porzione di verde nella sistemazione degli spazi esterni. Ci sembra tuttavia che si tratti di un complesso sin troppo grande per l'area in questione, un'architettura che, pur se i rendering presentano delle viste affascinanti dal Piovego, meriterebbe senza dubbio un respiro decisamente maggiore per poter essere essere goduta al meglio, proprio tra l'altro, come la sua antesignana australiana cui tanto sembra ispirarsi; è evidente, tra l'altro, la volumetria eccessiva nel porsi chiaramente fuori scala rispetto alle palazzine liberty lungo strada, non comunicando così una sensazione di integrazione che apparirebbe invece quanto mai opportuna.



Poco interessante appare comunque la scelta di rifarsi in maniera tanto palese a un riferimento straniero già esistente, che mal sembra conciliarsi con la necessità di realizzare un'icona specifica di Padova e della sua immagine, e altrettanto poco caratterizzata appare, dalla pianta, la sistemazione degli spazi esterni e il loro aggancio al tessuto esistente.



Altrettanto ingegnosa appare la proposta di Hermann Hertzberger, più vicina a una matrice razionalista teutonica che viene poi sconfessata nella fantasmagorica sistemazione interna, non priva di un certo fascino quasi piranesiano. Da sottolineare la sistemazione a verde degli spazi esterni, volti a creare un continuum con il verde al di là del Piovego, e il rivestimento dell'edificio, che con la sua leggerezza, molto vicina ad atmosfere bureniane, stempera la solennità del parallelepipedo dando al complesso il carattere quasi di un'installazione.









Anche in questo caso, però, è evidente come le attenzioni del progettista fossero rivolte molto di più all'edificio che al suo dialogo con il contesto. Lo si evince dalle dimensioni, anche qui decisamente eccessive rispetto al sito e all'edificato più prossimo, vale a dire le palazzine, e lo si evince soprattutto dal suo trasbordare fin sopra il Piovego, oscurando di fatto quello che dovrebbe in ogni caso rimanere il vero protagonista di ogni scorcio dell'area, vale a dire il canale. Non appare poi coerente, per quanto interessante, il contrasto tra la monumentalità dell'edificio e la vacuità del suo rivestimento, che ne indebolisce in qualche modo il richiamo e la riconoscibilità.



Il progetto di Kada&Wittfeld, a tutt'oggi vincitore, quanto a immediatezza e riconoscibilità è probabilmente il migliore di tutto il lotto dei finalisti. Aiutato anche da una presentazione estremamente efficace, affida al dialogo tra il volume della sala e la mirabolante copertura di cemento armato traforata, che sembra ammiccare al primo Niemeyer e addirittura a Ronchamp, gli esiti estetici della propria proposta. E'una proposta minimalista per molti aspetti, non ultimo la monomatericità, ma che presenta al contempo elementi estremamente ricercati, come il motivo vegetomorfo della copertura.









Tanta eterea e diafana eleganza esprime però più autocompiacimento che interesse a farsi portatrice di valori condivisi. Appaiono deboli i legami con il contesto (non c'è traccia della sistemazione degli spazi esterni), così come non ci convince minimamente il parallelo citato in sede di relazione tecnica tra la copertura e i portici patavini, assolutamente distanti come struttura, misure e tipologia; debole appare anche il legame con il canale, affidato esclusivamente all'aggetto della copertura. La copertura di calcestruzzo poi, interessante da un punto di vista plastico, si presenta come unico medium di caratterizzazione dello spazio esterno: in questo ruolo, appare enorme e monotona, e poco adatta a creare specificità. Poco convincente, per quanto insolito e accattivante, appare il motivo vegetomorfo della copertura, più vicino a un brillante capriccio molto PoMo che a un effettivo, e in questi termini banale, richiamo alla vegetazione antistante, così come da relazione di progetto.





Si parlava poi dei progetti "a metà del guado". Tra questi, a nostro modo di vedere stanno la proposta di Arata Isozaki e quella di David Chipperfield.
L'illustre giapponese coniuga come al solito la purezza e la riconoscibilità dei suoi volumi con la fantasmagorica leggerezza del rivestimento. Un'architettura fatta di pochi ma chiari elementi, che pur nella loro dichiarata autonomia figurativa, si adagiano dolcemente sull'intorno: basti pensare al portico, al rapporto con le palazzine, o alla trasparenza dei volumi dedicati al foyer.





Il maggior punto debole di tutta la composizione sembra essere però il suo elemento maggiormente caratterizzante: stiamo parlando dell'anfiteatro all'aperto, mirabilmente e ingegnosamente posto a legame indiossolubile ed effettivo con il canale, ma che non trova altrettanto compiuta giustificazione all'interno delle ragioni compositive del progetto. Da qui la sensazione di sospensione, da molti considerata però copme fatto positivo, come testimonia il favore raccolto presso il pubblico da parte dell'anfiteatro.
Sensazione simile viene trasmessa dalla proposta di Chipperfield. Famoso per la misura con cui riesce a inserire le sue opere ovunque mantenendo costante e inconfondibile il suo stile austero ed essenziale, il progettista inglese stavolta propone un'opera che, pur nella sua non invasività e nel suo carattere fortemente urbano, espresso dalla molteplicità dei piani di fruizione potenzialmente capaci di ospitare numerose e flessibili oggettivazioni secondarie, non sembra avere un'immagine così forte da poter diventare un'icona riconoscibile.



Veniamo dunque all'ultimo gruppo di progetti. Si tratta delle soluzioni a nostro modo di vedere più interessanti e compiute, in quanto affrontano la questione in modo completo e coerente, integrando la riflessione sugli aspetti compositivi con una puntuale investigazione delle relazioni con il contesto. E a questo gruppo appartengono a nostro avviso il progetto di Juan Navarro Baldeweg, di Manuel Aires Mateus, di Archea, di Odile Decq e anche di Cecchetto, come evidenziato nel post precedente. Detto dunque di Cecchetto nel post appena citato, veniamo brevemente agli altri.
La proposta di Archea è indubbiamente tra le più interessanti e originali. Il gruppo fiorentino che fa capo a Marco Casamonti concepisce un organismo edilizio la cui forma, senza fronzoli mimetici o forzature di alcun tipo, trova la sua essenziale ragion d'essere nella forma urbis del luogo. Lo si vede chiaramente dall'originale sistema di distribuzione delle sale e dei percorsi, totalmente improntati a cercare di relazionarsi direttamente ai due grandi palcoscenici del luogo, vale a dire la strada e il canale, realizzando due fronti porticti di uguale dignità che costituiscono un'interpretazione assolutamente pregnante della morfologia del luogo. Raffinato è anche il rapporto con le palazzine liberty, sopraelevate di un piano ma non sopraffatte figurativamente, e con cui il confronto volumetrico non è soverchiante.





Sulla stessa lunghezza d'onda è la proposta di Juan Navarro Baldeweg. Fedele al suo stile misurato e composto, il maestro spagnolo propone un edificio dall'immagine forte e compatta dall'esterno, caratterizzata da elementi semplici e riconoscibili (i volumi, il portico, la tettoia sulla strada), ma estremamente permeabile e fluido all'interno, permettendo così allo spazio urbano di penetrare in esso e di informarne la forma e la distribuzione. Anche in questo caso è evidente l'attenzione al rapporto con il contesto, con il chiaro intento di inserirsi, al massimo di affiancarsi, e mai di imporsi.











Originale anche se eccessiva appare la proposta di Aires Mateus, di cui non disponiamo purtroppo di immagini. Si tratta di un progetto eccessivo perché esageratamente frammentato: il progettista portoghese concepisce uno spazio molto copmplesso, facendo letteralmente entrare la città all'interno dell'edificio e realizzando una grande molteplicità di spazi a diversi livelli di idioritmia. Nel far questo, però, lo spazio interno dell'edificio rischia di dissolversi, così come rischia di dissolversi quindi anche l'immagine dell'edificio stesso, e quindi la sua riconoscibilità.
Ultimo di questa carrellata arriva il progetto di Odile Decq. E' un progetto estremamente articolato, che nonostante tutto non comunica una sensazione di pesantezza o ridondanza come le dimensioni potrebbero far pensare, ed è la soluzione che a nostro modo di vedere rappresenta il miglior compromesso tra le peculiarità del luogo e quelle del manufatto che il luogo deve ospitare. L'edificio viene infatti dilatato sino a ricoprire gran parte del sito, lasciando comunque una cospicua porzione di superficie scoperta sistemata a verde in prossimità del canale: nel suo espandersi a dismisura, il costruito però acquista una struttura gerarchica la cui scala supera quella architettonica, in cui le singole sale di ascolto divengono volumi puri, veri e propri edifici a sé stanti, e il foyer diviene una gigantesca piazza coperta dal rivestimento vetrato completamente trasparente, e in cui la luce naturale entra anche dall'alto attraverso le numerose aperture, anch'esse vetrate, praticate nella plastica copertura. Si realizza così uno spazio sensazionale ed estremamente confortevole, veramente urbano a tutti gli effetti, in cui i percorsi verticali si intrecciano a quelli orizzonatli, e in cui la varietà degli scorci rende mai scontata la sua percezione. Completano poi l'opera la straordinaria eleganza nella trattazione dei volumi, che ricorda atmosfere organiciste e neoplastiche, il rapporto con le palazzine, totalmente reiterpretate e da cui l'edificio, attraverso la copertura, sembra scaturire, e l'ambizioso colore rosso dei volumi delle sale, che dà riconoscibilità immediata a tutto l'insieme, oltre a essere un elemento figurativo la cui padovanità è al di sopra di ogni ragionevole dubbio. Inutile nascondere comunque, onde non sembrare qualunquisti e del tutto agnostici, cosa del tutto esecrabile, oltre che vile, in questi casi, che è anche il progetto che maggiormente riscontra il favore di chi scrive.











Un'ultima considerazione, che ci pare quanto mai pregnante. E'stata spessa tirata in ballo nelle varie sedi di discussione, in seguito alle vicissitudini metodologiche e burocratiche di tutta la vicenda concorsuale, la questione relativa allo strumento e alle modalità di giudizio relativamente ad occasioni come quella di cui ci stiamo occupando, e ci si è spesso interrogati sull'idoneità o meno di formule concorsuali simili e sull'eventuale ricorso a consultazioni popolari, in luogo di consulenze di élite di "saggi". Anche qui, crediamo vada fatto un po' d'ordine.
E' demagogico e anche un po' fariseo pensare di decidere le sorti architettoniche e urbanistiche di un'area attraverso un referendum, per un motivo molto semplice: la gente comune non ha il discernimento necessario per prendere una decisione in merito e scegliere tra questo e quel progetto (lo ha detto anche Vittorio Gregotti, che pure non è esattamente tra i nostri progettisti preferiti). Ci sono modi molto migliori per innescare un fenomeno che va tanto di moda oggi, ossia la PARTECIPAZIONE. Si possono organizzare tavoli di discussione, isolare delle categorie di indagine in merito al progetto (interrato-non interrato, senza palazzine-con le palazzine, ecc.), esporle alla gente e agli eventuali portatori di interesse illustrando i pro e contro tramite dei professionisti non di parte, raccogliere pareri, impressioni e quant'altro e redigere un documento di sintesi opportunamente filtrato e reso coerente che poi possa costituire da guida per i progettisti, e soprattutto, per il bando di concorso. E'stata condotta un'esperienza molto simile con la ben nota vicenda delle Torri Gregotti all'Arcella, questione in cui ci imbatteremo prossimamente: è sotto gli occhi di tutti il palese fallimento, palese sin dalla formulazione dei quesiti, del referendum del 18 giugno 2006, ed è altrettanto evidente che invece il tavolo di concertazione per l'elaborazione del P.A.T. organizzato nel quartiere ha dato dei risultati magnifici in termini di indicazioni progettuali e soprattutto di creazione di consapevolezza condivisa presso i non addetti ai lavori. Procedimento costoso e dispendioso certo, anche economicamente, però sicuramente più utile di molti altri sprechi perpetrati dalle pubbliche amministrazioni, e che sicuramente eliminerebbe sia i costi aggiuntivi dovuti a ritardi, ricorsi, polemiche e controricorsi, sia i tristissimi teatrini tipo quello cui si sta assistendo a proposito dell'auditorium. In fondo, poi, si tratterebbe di recepire la tanto nominata legge 11/04, mica l'Editto di Rotari...Certo, poi, se in sede di giuria avvengono cose strane com'è sin troppo evidente sono successe per l'auditorium, lì c'è poco da fare. Ci si può chiedere poi: "come si fa a far partecipare gli incompetenti?" Semplice, rendendoli meno incompetenti. E' chiaro che bisogna tenere conto del parere di tutti. Però perché ciò sia utile, è altrettanto chiaro che tutti devono essere in grado di dire qualcosa avendo concezione di causa. Se tu chiami un architetto a progettarti l'arredamento di casa, sicuramente non sei tecnicamente competente, ma altrettanto sicuramente sei consapevole di ciò che ti serve, di ciò che ti piacerebbe e delle conseguenze delle tue scelte nella tua vita domestica, perché ne hai un riscontro immediato e quotidiano. Ciò è molto meno semplice in un progetto urbano, perché il singolo non addetto ai lavori non ha le competenze per valutare ricadute sul medio-lungo periodo e su ambiti che sfuggono al singolo esaminatore (anche competente, basta vedere l'esercito di tecnici e consulenti che si cela dietro ogni singolo progetto di concorso anche a scala non esattamente territoriale).
Perciò, l'unico sistema, o meglio, il meglio percorribile, meglio ancora, il primo passo, qual è? Fare CORRETTA E SANA INFORMAZIONE, e non demagogica strumentalizzazione politica come purtroppo sempre accade in questi casi (ambientalisti, no-tav e progetto Libeskind insegnano), sia da parte della pubblica amministrazione sia da parte dei comitatini più o meno spontanei, tipo il Comitato Ansa Borgomagno, dove poi si scopre che in realtà i sobillatori sono militanti del Pedro che cercano solo di evitare lo sfratto da un edificio occupato abusivamente (tra l'altro), altro che nobili principi...
Il problema non è che a Padova manchi un interlocutore, che possa porsi positivamente di fronte a dei progettisti. Le persone competenti ci sono, via, e se si parla di interlocutore come opinione pubblica, forse spontaneamente non c'è da nessuna parte. Il problema è che a Padova MANCA LA VOLONTA' di porsi come interlocutore privilegiato, perché purtroppo chi guida le menti, sia al potere che all'opposizione, fa tutto, ma proprio tutto, per mero tornaconto elettorale. E intanto, sembra un luogo comune, ma è così, le occasioni perse aumentano.

Quer pasticciaccio 'bbrutto...in salsa padovana

Si parla sempre di auditorium, questione che tiene banco su tutti i giornali locali, e che merita attenzione se non altro per l'altisonanza dei nomi coinvolti. In questo post ricostruiamo a grandi passi le vicende dell'iter che, tra giuria, ricorsi e controricorsi, ha portato al risultato attuale. Eh sì, perché il vincitore non è più Cecchetto, ma, a partire dall'ultima sentenza dei primi di dicembre, l'austriaco Klaus Kada, esponente della cosiddetta scuola di Graz, classificatosi secondo nella graduatoria finale.











Ma andiamo con ordine. Ci eravamo lasciati con il buon Cecchetto, elogiato da Verdi, Legambiente, Amissi del Piovego e Giunta Comunale come il salvatore del Piovego, il portatore del Verbo Vitruviano, propositore di un nuovo paradigma di emergenza architettonica non invasiva, vincitore del concorso.



Cos'è successo quindi? Per un vizio di forma, Cecchetto è stato estromesso dal concorso. Pare che abbia fatto ricorso a un brevetto specifico in termini di acustica proprio esclusivamente a Arup, consulente designato, rendendo così il progetto riconoscibile all’atto della valutazione da parte della giuria, annullando così di fatto il risultato del concorso. Fatto assai strano, che comunque può succedere: ciò che non si spiega però, è che in sede di giudizio il fatto era ben noto ai giurati, i quali però, con votazione apposita, hanno giudicato di poco conto, e quindi superabile, il vizio di forma.



Cos’è successo quindi, al momento della presentazione del ricorso da parte dello studio Kada (secondo classificato) proprio in merito al citato vizio di forma, che ha cambiato così radicalmente le carte in tavola? Questo non è dato saperlo. Quello che è successo invece è che Cecchetto ha fatto ricorso al Tar e ha perso (notizia della settimana scorsa), sancendo di fatto la vittoria di Kada e passando così da novello Michelangelo a non avere neanche il rimborso spese di 30.000 euro previsto dal regolamento. Ma la cosa veramente interessante è che nella motivazione del controricorso di Cecchetto c’è un’accusa precisa e provata secondo cui anche il progetto di Kada ha lo stesso identico vizio di forma!!! E la giuria ne era consapevole!!!
Evviva. Il bello però deve ancora venire. Ci si chiederà infatti: "E il Comune? Non dice niente?" Nonnò, il Comune parla eccome, e purtroppo perde l’occasione di starsene un po’ zitto. Dai toni trionfalistici testé citati a proposito di Cecchetto, si è passati a un pilatesco "Qualsiasi progetto va bene, purché si faccia", troppo preoccupati di perdere la faccia per non riuscire a realizzarlo entro il 2009, termine del mandato dell’attuale Giunta. Al punto, pensate, di voler impedire a Cecchetto di ricorrere al Consiglio di Stato per non impugnare la sentenza del Tar (suo sacrosanto diritto); non solo, arrivando addirittura a violare il regolamento del concorso decidendo di attribuire ugualmente il rimborso spese a Cecchetto nonostante fosse stato escluso dalla competizione, per convincerlo a non ricorrere! In pratica comprando il suo silenzio!



E tutto questo dopo polemiche comparse sui giornali in merito a pressioni politiche e fuga di notizie riguardo i lavori della giuria, di cui abbiamo un’altra diapositiva



e dopo, soprattutto, un'infelicissima quanto sconcertante dichiarazione del presidente di Giuria, Gonçalo Byrne, contenuta in un articolo che riportiamo testualmente:

Le polemiche prima del verdetto e l'amarezza del presidente Byrne

Il progetto dell'architetto veneziano Alberto Cecchetto (Arup Italia è il mandante, a cui vanno aggiunti una marea di consulenti per acustica, impiantistica e gestione) si era piazzato al primo posto con cinque punti di vantaggio sul secondo, aggiudicandosi i 100 mila euro previsti come premio. Il verbale firmato dal presidente, il portoghese Gonçalo Byrne, e da tutti gli altri membri della giuria, subito dopo era stato consegnato al responsabile del procedimento Umberto Rovini, mettendo così fine a un iter durante il quale non erano mancate le polemiche, culminate con le indiscrezioni sull'elaborato vincente uscite una decina di giorni prima del verdetto, secondo le quali il progetto classificatosi al primo posto non sarebbe stato gradito all'amministrazione. Inoltre, all'interno della giuria, era stata necessaria una votazione per superare un "vizio di forma": 9 i componenti favorevoli, uno astenuto. Luisa Boldrin, assessore all'Edilizia Monumentale, e lo stesso Byrne subito dopo il responso, con un velo di amarezza avevano spiegato come si erano realmente avvicendati i fatti. «Sabato 23 giugno - aveva ricostruito Byrne - i lavori si erano conclusi alle 20, ma non potevamo rendere pubblico il verdetto, perché il verbale doveva essere trascritto in bella copia e sistemato, come abbiamo fatto successivamente. Ho pregato i giurati di non raccontare nulle e invece non è andata così, perché le informazioni sono invece trapelate. Ho una lunghissima esperienza in fatto di giurie, in tutti i Paesi del mondo, ma è la prima volta che accade qualcosa del genere. Tutto questo è ingiusto per almeno tre motivi: la giuria ha lavorato con impegno; ci voleva maggior rispetto per i concorrenti; è ingiusto per una città che, grazie all'assessore Boldrin, ha indetto questo concorso per trovare un progetto di grandissima qualità. Noi ci siamo sempre riuniti con serenità e l'amministrazione ha avuto un atteggiamento dignitoso». «È stata una decisione della maggioranza - aveva detto ancora Byrne - che io ho rispettato, anche se per me c'erano dei progetti più adatti a una realtà come quella di Padova». «Da anni - aveva precisato Luisa Boldrin - si fanno tantissimi concorsi, ma poi sono poche le opere che si concretizzano. Tanto per fare un esempio, David Chipperfield ne ha vinti 8, mai realizzati. Non invece non abbiamo bandito questa gara per un mero esercizio accademico, ma partiamo subito con la realizzazione».

E la telenovela, c'è da giurarci, è appena all’inizio.
In ogni caso, quello che è da sottolineare è che i cuori pavidi del Comune non ci fanno una gran bella figura. Chiaro che tutti si auspicano che l'auditorium si faccia in tempi brevi, ma non si può negare il controricorso a Cecchetto quando il gruppo Kada ha vizi di forma almento pari a quello del veneziano...E questo pilatesco "uno vale l'altro, non vorremmo ritrovarci a dover rivedere tutto alla posa della prima pietra tra due anni", ditelo che è perché nel 2009 ci sono le elezioni!!! Ma non era meglio pensarci prima e vigilare un po' di più sulla giuria, che ne ha combinate di tutti i colori (a partire dai voti dei singoli giurati sulle singole voci di giudizio) e non oso pensare con che criteri alla base, invece di prendere trionfalmente il progetto Cecchetto e sventolarlo come il gonfalone della nuova architettura ambientalista del XXI secolo? Giusto per baloccarsi un po' con la sequela di luoghi comuni con cui a Padova si sciacquano la bocca miriadi di associazioni ambientaliste e comitatini pseudolocalistici che altro non fanno se non offuscare le menti e seminare demagogia?
Ci si lasci poi dire due cose in merito ai progetti, chiaramente personalissime e in quanto tali del tutto opinabili...L'ingegnoso e ardito progetto di Cecchetto ci sembra palesemente inidoneo alla destinazione d'uso e soprattutto al ruolo che dovrà avere il nuovo manu-FATTO urbano, per quanto, ribadiamo, progetto e soluzione interessante che servirà assolutamente come know-how in futuro e farà scuola in materia, in presenza magari di situazioni meno gravose dal punto di vista idrogeologico e magari più allettanti dal punto di vista orografico. Va dato atto però al buon Cecchetto di aver dato una risposta, condivisibile o meno (e noi non la condividiamo), ma comunque coerente e anche ben articolata, sul luogo e sulla sua struttura urbana, ponendo in maniera chiara la questione dell'opportunità di semantizzare un vuoto in un'area verde (e non un'area qualunque, ma un'ansa del Piovego) a ridosso de centro storico. Credinmo che il luogo, questo luogo, meriti SEMPRE la riflessione più importante nella progettazione: da esso il progetto deve trarre le proprie invarianti, in esso il progetto deve vivere, e di questo nel progetto si dovrebbe respirare "l'atmosfera ineffabile, eppure percepibile". Alcuni altri progetti contengono simili elementi di riflessione sul contesto, con risposte differenti: Odile Decq, Archea, Navarro Baldeweg...Noi onestamente in Kada non riusciamo a vedere nulla di tutto ciò. E per quanto possa piacere la copertura traforata, molto PoMo, sinceramente ci piacerebbe che qualcuno ci spiegasse dov'è il riferimento ai portici di Padova citato nella relazione di progetto e dove si vede il legame con il verde degli alberi in una mega copertura di cemento che non ci convince neanche nei rendering.



Per non parlare del corpo centrale modello torre di controllo...Va ben che piuttosto dell'Auditorium di Vicenza (Gino Valle r.i.p.)...Però pensiamo che Padova meriti di più, soprattutto in luogo che diventerà molto significativo per la città, soprattutto dopo che sarà completato il piano di Podrecca. E soprattutto pensiamo che non sarebbe necessario andare lontano, buoni progetti ci sono già nel novero dei finalisti...

In fin dei conti...Bravi, complimenti. Complimenti a tutti. Una straordinaria occasione per dotare Padova di una delle tante (troppe) cose che mancano alla città cardine del Nordest, un’occasione per fare grande architettura dopo quelle perse (stadio Euganeo, metrotram) e quelle che abbiamo rischiato di perdere (memorial di Libeskind), e noi qui a fare cosa? A fare il solito teatrino all’italiana, a mostrare al mondo il nostro lato peggiore, quello di impastare inciuci allegramente e senza nessun ritegno. Applausi.

Questioni di opportunità

Bene, vista l'attualità di questi giorni soprattutto per chi segue le vicende architettoniche padovane, crediamo sia d'uopo introdurre un argomento assai interessante e non privo di spunti di un certo spessore, e per far questo ricorreremo nuovamente alla raccolta di materiale già da noi pubblicato su altri forum in maniera più o meno estemporanea. Stiamo parlando del progetto del nuovo auditorium di Padova progettato da quella star dell’italian architecture che risponde al nome di Alberto Cecchetto, professore IUAV et cetera et cetera. Senza scendere in particolari, giusto per inquadrare la questione, parliamo di una struttura innovativa e totalmente rivoluzionaria perché quasi completamente interrata.







INTERRATA???? INTERRATA????

Giaggià. E non vi sto qui a discettare sulla monumentalità, la questione del fatto urbano, del genius loci e compagnia cantante, delle polemiche sul risultato del concorso (immancabili), et cetera et cetera.
E’ da sottolineare come però le associazioni ambientaliste, attentissime a Padova alle questioni architettoniche (le stesse che a momenti linciano Libeskind per il memorial alle porte Contarine) si siano lanciate positivamente a favore dell’impresa, lodando il basso impatto ambientale, la possibilità di recuperare area verde e preconizzando addirittura un futuro da "precedente storico" importante per lanciare un modello innovativo di auditorium per le prossime città...
Vabbé, può anche essere. Solo che leggendo qua e là noi, che non siamo geologi (ma non siamo i soli addetti ai lavori a non esserlo a quanto pare...), scopriamo che l’area vicino al Piovego, ha una falda acquifera ad appena tre metri di profondità.



Cosa significa questo? Significa che muovere un metro cubo di terra lì sotto vuol dire rischiare di mettere in moto un movimento di terra, fluidi e altro di proporzioni potenzialmente devastanti, con rischi seri anche per l’equilibrio idrogeologico di aree adiacenti sensibili, come la Cappella Degli Scrovegni, ad esempio.

... E COME CASPITA HA FATTO A VINCERE QUESTO?

Pur continuando rigorosamente ad evitare di dare giudizi di valore, ce lo siamo chiesto anche noi. Quello che però è sconcertante da chiedersi è:

cosa diranno le associazioni ambientaliste? verranno a promuovere e ad appoggiare la possibile devastazione di un complesso monumentale senza eguali al mondo in cambio di qualche metro quadro in più di verde e alberelli? Nella speranza ossessiva e ossessionante di eliminare dalle città la responsabile dei mali del mondo, cioè l’automobile? Maddai...

Vi lasciamo con questo momentaneo spunto di riflessione:
Lo sviluppo sostenibile è quello che cerca di dare risposte pratiche e convincenti ai problemi affrontandoli direttamente, e non saltandoli a piè pari o aggirandoli. Il resto sono solo favolette.

sabato 22 dicembre 2007

Spunto programmatico

In attesa di cominciare a parlare di progetti ed esempi concreti, che è ciò che ci interessa più da vicino, per introdurre un primo spunto di riflessione, riportiamo con un miserrimo copiaincolla due nostri intervento presso l'autorevole blog di Giorgio Muratore, Archiwatch.it Si parlava in quell'occasione di maestri ed esempi da seguire e, inevitabilmente, come quasi sempre succede in queste occasioni, si è finiti a discutere del modo in questi vengono proposti e affrontati nelle scuole di architettura. Noi, profondamente convinti della fondamentale importanza della questione della qualità della formazione sia da parte della domanda che da quello dell'offerta in ogni campo lavorativo, oltre che ancora addentro per motivi curricolari al sistema accademico, crediamo quindi assolutamente opportuno partire proprio da questo punto per il nostro percorso.

"Parlar bene di" è uno sforzo utile e forse nuovo, soprattutto in un luogo e in un momento storico in cui il tirar acqua al proprio mulino, vuoi per orgoglio teoretico vuoi per mero interesse professionale ergo economico, è attività gettonatissima e quasi sport nazionale all’ordine del giorno. Io credo che però finché ci si limiterà a “parlar bene di” o a “parlar male di” e, soprattutto, finché nelle facoltà di architettura la parte “teorica” dei laboratori di progettazione sarà proporre un campionario di esempi da imitare (come succede nel 90% de casi), credo che non ne usciremo mai. Finché sentiremo x incensare y oppure y gettare guano su w, rimarremo al punto di partenza: è un sogno immaginare una scuola di architettura in cui si insegni a problematizzare delle questioni e a guardare degli esempi in maniera critica, senza per forza idolatrare questa o quell’altra archistar? In cui, se devo progettare una casa unifamiliare, mi insegnano COS’E’ una casa unifamiliare proponendomi criticamente delle soluzioni alternative, e NON a copiare una casa fatta da questo piuttosto che da quest’altro? E’ un sogno sperare che la ricerca sulla didattica architettonica in Italia si spinga in maniera seria a isolare delle invarianti per costruire un linguaggio, capace di volta in volta di declinarsi a seconda del background dell’autore, dell’atmosfera ineffabile, eppure percepibile, del luogo (per parlare di gente importante che non si studia nelle scuole…)? Probabilmente allora riusciremmo a evitare l’imperdonabile errore di prendere per oro colato tutto ciò che esce dalla matita di questo o quell’altro, e al contempo di stroncare qualsiasi cosa venga partorita dalla mente di quell’altro. Quindi allora capiremmo l’importanza fondamentale di conoscere Gregotti e Tafuri (soprattutto Tafuri, provate a chiedere a uno studente italiano al terzo anno se sa chi è…), Piano, Rossi, etc., riusciremmo a lodare giustamente le loro opere meglio riuscite, ma avremmo anche il coraggio di dire, per esempio, che lo Zen è una bestialità, che il 90% dei municipi della pianura padana è un patetico e irritante revival rossiano senz’anima e che la spettacolare Chiesa di San Giovanni Rotondo, magnifica esaltazione dell’estro di un grande progettista, probabilmente con lo spirito del luogo e del culto cui è preposta forse non c’entra un granché. Credo che il problema sia questo: la colpa non è tanto di questo o di quello, ma veramente, e non è un luogo comune, penso (opinione personalissima di un laureando qualsiasi) che responsabile di tutto ciò sia un modo di considerare l’architettura e di rapportarsi con essa che ha sì prodotto grandi risultati negli anni, ma ormai ha fatto il suo tempo. Probabilmente c’è bisogno di un “parricidio”, che, bada ben, non è rinnegare il passato e i maestri, ma, anzi, conoscerlo a fondo per porsi l’obiettivo di superarli e di andare oltre, NON di scimmiottarli o peggio, di esserne gli epigoni. Allora forse vedremmo una coscienza architettonica più consapevole e condivisa, concorsi con esiti meno polemici e forse non vedremmo più ascensori sul Vittoriano, morfemi a Vema e via discorrendo. E anche i seguaci dei vari Gregotti, Rossi e compagnia cantante farebbero meno danni...

…un’idea vecchia come il mondo, che però come tanti piani regolatori magnifici lasciati ammuffire in un cassetto perché non conformi a logiche speculative e interessi localistici, non è detto che sia sbagliata, anzi, spesso è la migliore. Come è pur sacrosanto che l’emulazione di opere-evento è stato il motore imprescindibile dello sviluppo dell’architettura e dell’estetica architettonica nei secoli. Il problema però è il livello e il piano dell’emulazione: un conto è, ribadisco, scimmiottare per adesione a un partito morfologico o tipologico che sia, un conto è decontestualizzare e citare un riferimento. Allora credo ci possa essere un punto di contatto, anzi, che sia quello decisivo: e allora torna buono, anzi, necessario, il perdere ore a ridisegnare riferimenti (quello non fa mai male), il più eterogenei possibile, con lo scopo di costituire un repertorio formale dal quale attingere nel modo più imprevisto e imprevedibile. E’ certo un modo di procedere più faticoso e rischioso perché del tutto non lineare, ma di sicuro il più prolifico di conseguenze e sviluppi veramente “novatori”: penso (altra opinione personalissima) che, più di ameboidi, nuvole e quant’altro, questo sia il medium dell’espressione della complessità, grande moloch che imperversa sui testi di urbanistica da una decina d’anni a questa parte. E, cosa più interessante, sono anche convinto del fatto che non sia un modo di procedere così diverso da quello che di volta in volta, nella storia dell’arte e dell’architettura in particolare, ha prodotto quei salti nel futuro che hanno fatto evolvere la ricerca architettonica: penso alla Chiesa del Redentore di Palladio, alla Santa Bibiana del Bernini, alle prime ville di Le Corbusier (pur con tutta la loro carica ideologica), alle opere di Louis Kahn. Di più: credo che non sia poi così diverso, anzi, vedo un’analogia totale, con quanto contenuto e costruito dai contemporanei decostruttivisti, non in tutto ma sicuramente negli esempi più puri e genuini. Senza considerare tutta quella fuffa frettolosamente bollata come decostruttivista solo perché magari vagamente riconducibile a una stereometria non cartesiana o comunque fratturata, penso che il messaggio che ci viene da testi come l’ultimo di Eisenman su Terragni sia assolutamente da recepire, e sia la strada giusta da seguire, non magari nel merito (non ho i titoli per dirlo), ma sicuramente nel METODO. E forse non è un caso che nelle scuole di architettura, o si snobbano autori come Rowe, Alexander, Anderson, Venturi, Eisenman stesso, si buttano insieme nel calderone capolavori e porcate e si bolla il decostruttivismo col marchio d’infamia di vague modaiola e glamour, oppure si propinano il Gehry, il Libeskind, ma come? come oggettini belli da copiare!
Lungi da me con questo il voler fare l’apologo del decostruttivismo, ma mi pareva un esempio calzante di quale sia la distanza tra quello che si fa nelle scuole e quello che invece spinge avanti il dibattito architettonico. Chiudo con una postilla: quando ero all’inizio, ricordo che al primo anno, prima di dare Composizione 1, ho seguito un corso di Caratteri Tipologici e Morfologici dell’Architettura, in cui il titolare, Armando Dal Fabbro, mi parlava, tra le altre cose, di Scuole Grandi di Venezia, di Acropoli di Atene, della Cité de Réfuge di Le Corbusier, di James Stirling, Five Architects e di molte altre cose ancora, e il filo conduttore generale era “Teoria generale del montaggio” di Ejzenstejn; ricordo anche che in un altro canale Adriano Cornoldi teneva un corso analogo in cui riproponeva il modus operandi dei suoi due magnifici libri “L’architettura della casa” e “L’architettura dello spazio sacro”. Bene, ora, nell’università del 3+2, il corso è opzionale…Orate fratres…

Bene, il dibattito è aperto. Chi volesse leggere l'intera discussione, la trova qui.

Inizio delle trasmissioni

Inizia un'esperienza nuova, ma forse neanche troppo. Un diario di bordo assolutamente non privato. Un taccuino di schizzi dove fissare pensieri e riflessioni del tutto personali attorno allo spazio contemporaneo. Un tentativo modestissimo di guardare l'architettura con uno sguardo maggiormente consapevole, senza fermarsi necessariamente al mero sentimento edonistico e senza farsi condizionare troppo dalle mode di turno. Uno sforzo di alimentare lo spirito critico senza necessariamente trasformarsi nella Sacra Inquisizione che scaglia anatemi indiscriminatamente a destra e a manca.
Forse tutte queste cose assieme, forse nessuna nel senso stretto del termine. Più probabilmente, alla fine, la necessità, da parte di un futuro addetto ai lavori ormai prossimo a cambiare sponda (dita incrociate...:D), di confrontarsi con una base più ampia su ciò che da anni riempie la sua vita e continuerà a farlo in futuro.