martedì 19 agosto 2008

Tra modernisti e passatisti: riflessioni sulla terza via

Riprendiamo il filo di questo blog dopo qualche tempo di oblio piuttosto forzato, con la promessa di dargli uno sviluppo conrinuo e coerente con la nuova stagione lavorativa ormai alle porte. Tempi di oblio materiale del blog, non certo di inerzia riguardo le cose che ci interessano da vicino, anzi, l'intraprendere nuove situzioni lavorative ci ha portato ad entrare in una notevole varietà di situazioni, che man mano andremo a sviscerare.
Giusto per riprendere le nostre argomentazioni, mantenendo intatto lo spirito fortemente critico e indagatore di questo blog, proponiamo qui uno spunto di riflessione riguardo un argomento vecchio forse quanto l'architettura, ma quanto mai attuale, vale a dire la disputa tra passatisti e modernisti. Confessiamo che le righe che andiamo a proporvi non sono proprio freschissime, ma sono il risultato di una discussione di qualche mese fa tenuta in questo blog nell'immediato post-laurea; ciononostante, l'imperversare nei media, come mai negli ultimi anni, di questioni riguardanti il nuovo sviluppo delle città, dall'Ara Pacis, a City Life, fino all'Auditorium di Padova e al progetto vincitore per la nuova Torre della Ricerca, sempre a Padova, di Vittorio Gregotti, oltre al divampare della polemica contro le archistar che, in nuce, contiene in sè le ragioni dei temi che andiamo ora a trattare, ci ha indotto a riportare quanto segue.

Crediamo che ci sia un po' di verità in entrambe le posizioni. E' vero che, come è spesso successo quando una voce innovativa si è stagliata sopra il coro nel secolo scorso e anche prima, l'interpretazione banale e un po' facilona delle invarianti zeviane e comunque di tanta, BUONA, architettura col senno di poi definita "decostruttiva" ha portato a una deriva di senso che già oggi mostra tutta la sua debolezza, al punto da trasformarsi da architettura in puro glamour da portare negli spot pubblicitari, tipo nuvole e quant'altro.







E' vero altresì però, che se è sbagliato figurativizzare la disarmonia solo perché la società contemporanea vive un momento di difficoltà sotto molti punti di vista, non si può fare finta che non sia cambiato nulla. E' vero che se il centro storico piace ancora oggi un motivo ci sarà, ma è anche vero che le sensibilità cambiano, e che una società che vive il suo tempo abbia il diritto di esprimersi, con rispetto sia chiaro, ma secondo la propria sensibilità, e qui entra in gioco la preparazione culturale e il ruolo del progetto di architettura, tutt'altro che esaurito a nostro modo di vedere, checché ne dica Andrea Branzi o chi per lui.
E qui torniamo al dilemma. Esiste una terza via? Noi crediamo di sì. Purtroppo oggi la cultura architettonica di massa, che purtroppo sta entrando anche nelle università con movimento esattamente opposto rispetto a quello che dovrebbe essere, fagocita tutto ciò che rompe gli schemi rispetto a un palazzo rinascimentale e lo bolla come "decostruttivo". E qui purtroppo nasce un tourbillon veramente vizioso, in cui la faciloneria dell'interpretazione e la deriva formale cui si accennava poco fa si rincorrono incessantemente, con il risultato da un lato di offuscare le menti, e dall'altro di popolare le riviste di architettura di ameboidi e quant'altro.
Va fatto un po' d'ordine. La dicotomia storia-decostruzione secondo noi è un sofismo: non può esserci decostruzione senza storia. Anzi, è proprio da una conoscenza approfondita della storia che può partire una seria decostruzione, che, semplificando rozzamente, altro non può essere che una ricodificazione decontestualizzata, o, aggiustando il tiro, artatamente ricontestualizzata. Mi pare che lo stesso Eisenman in "Notes on conceptual architecture: toward a definition" e "The futility of objects" lo dica chiaramente.





E se vediamo le cose in questa maniera, vedremo che la casa Giuliani-Frigerio, come molte altre di Terragni, è eminentemente decostruzionista, così come lo sono molte architettura manieriste del '500 veneto, le prime chiese del Seicento romano, piuttosto che alcune delle opere meglio riuscite di Richard Meier (non l'Ara Pacis...), Rafael Moneo o Alvaro Siza.













Il vero problema, secondo noi, è che manca oggi, soprattutto nelle università italiane, un vero dibattito su questi temi, sui nuovi autori (nuovi...degli ultimi trent'anni), un dibattito che parli di estetica del contemporaneo in senso di METODO, in senso veramente e intrinsecamente PROGETTUALE, senza più baloccarsi con lo storicismo fine a sè stesso o riempirsi la bocca di discorsi in architettese che, scava scava, alla fine si risolvono quasi sempre nel gusto personale di chi parla. Fino a quando non ci sarà una vera e matura sperimentazione progettuale fondata imprescindibilmente su uno studio cosciente di testi teorici finora sconosciuti (Zevi, Tafuri, Eisenman...chiedete a uno studente del terzo anno se ha mai letto qualcosa di questi qui) e su una conoscienza precisa dei riferimenti storici, resteremo, a nostro modo di vedere, sempre impigliati in un dilemma vecchio come il mondo e ormai stantio, ma soprattutto continueremo a vedere ameboidi e affini, a sparare anatemi (sacrosanti) su di essi e a credere che non vi sia alternativa a questi se non lo storicismo cieco o il revival stile Krier e molti altri Po-Mo.
In definitiva, ci riconosciamo molto in una chiosa di Salvatore D'Agostino: "Le nostre beneamate pietre cominciano a pesare perché fissandole abbiamo dimenticato l'arte del costruire." Aggiungiamo che non fissiamo solo le nostre beneamate pietre, ma anche la nuova architettura glamour che i massmedia e le archistar cercano di propinarci. Credo che sia venuto il momento di smetterla di rimanere lì a fissare, ma sia ora di ricominciare a progettare.

La soluzione indicata non è però progettare e progettare in termini quantitativi, questo è uno slogan, e in quanto slogan può essere semplicistico e fuorviante. Sappiamo bene che certe regole dell'architettura sono state scritte prima del XX secolo, e siamo tutti abbastanza seri per capire che non è colpa degli antichi se non avevano cemento e ferro, ma è proprio questo il punto: noi ce l'abbiamo, ed è pertanto giusto che agiamo di conseguenza. Per nostra natura detestiamo le posizioni manichee: non ci permetteremmo mai di dire che l'estetica che sta dietro a Krier sia assurda, e siamo altresì convinti che una sua casa sia ben più vivibile di un arzigogolo di Libeskind. Non è questo il punto o perlomeno non ci interessa: anzi, forse questo è proprio l'impasse da superare. Non siamo di principio né per Krier, né per Libeskind: diciamo solo che perdersi in una dicotomia vecchia come l'architettura tra passatismo e modernismo senza rinnovare gli strumenti progettuali a nostra disposizione, o perlomeno senza provare a farlo, in un momento in cui c'è chi sostiene che in edilizia si sia detto tutto o quasi, significa veramente per noi la morte della professione e del disegno di architettura. E' evidente che la qualità delle città è sempre più bassa, e siamo profondamente convinti che oltre a una serie di ragioni molto poco poetiche e assai più "terra-terra" che chi lavora conosce bene, la causa di questo sia un modo di procedere ormai stantio, che si è allontanato via via dall'evoluzione del mondo e della società, almeno in Italia. E, guardacaso, l'università ne è diretta testimone. Possibile che, al primo dello IUAV di non troppi anni fa, l'unico spunto di riflessione teorica non derivante da ricerche autodidattiche fosse l'inflazionatissimo (ma imprescindibile, per carità, anzi, meno male che c'era almeno quello) confronto tra "Manière" e "Der Stadtebau", e poi basta negli anni successivi?
Allora correggiamo lo slogan: ricominciamo a pensare a cosa progettiamo, ricominciamo a studiare, e ricominciamo a considerare il progetto di architettura come un'occasione di ricerca, almeno all'università. E allora ci accorgeremmo che la "terza via" c'è già, c'è sempre stata e molti l'hanno percorsa prima di noi, anche prima del XX secolo, solo che negli ultimi sessant'anni abbiamo perso il tempo, o forse la voglia, o forse il coraggio, di seguirla. O forse, più tristemente, non conviene più economicamente.

C'è poi un ulteriore dato che conferma come l'arroccarsi dietro posizioni consumate non faccia evolvere il dibattito e pertanto la ricerca della qualità, ma anzi, inneschi un circolo vizioso senza via di scampo: il fatto che la dicotomia tra passatismo e modernismo abbia ormai trasceso i confini dell'architettura e sia diventata luogo di scontro nella ricerca del consenso, di natura squisitamente politica. Lo si vede dal fiorire di comitati e comitatini più o meno ambientalisti, o dalle incresciose vicissitudini legate alle consultazioni popolari (sic): tutte occasioni in cui si verifica esattamente ciò di cui precedentemente si paventava il rischio, vale a dire prese di posizione sbandierate senza solide argomentazioni alle spalle, disinformazione collettiva, e, infine, l'immobilismo, la non soluzione ai problemi, il male peggiore.
La cosa veramente grave però è che tutto ciò impedisce tra l'altro il diffondersi di una cultura architettonica condivisa, e gli architetti in questo sono relegati sempre di più nel ruolo di santoni nerovestiti dai quali è bene guardarsi in favore del più diligente e meno costoso geometra, con i devastanti effetti in termini di saturazione del mercato e lavoro sottocosto che tutti tristemente conosciamo; e ciò che ha del paradossale, per non dire grottesco, è che sono proprio degli architetti a sostenere questo, nel loro, peraltro condivisibile, scagliarsi contro le archistar!
Ora, è vero che il problema esiste, che se non si sta attenti l'architettura degli ameboidi rischia di essere come un blob che inghiotte le nostre città, è vero che le facoltà di architettura producono sempre di più personaggi dallo spirito critico quantomeno da verificare, ma la soluzione del problema NON PUO' essere azzerare tutto. Non lo accettiamo. Se siamo architetti e siamo consapevoli dell'importanza di quello che è il nostro principale strumento di lavoro, vale a dire il DISEGNO DI ARCHITETTURA, abbiamo il DOVERE DI NON ACCONTENTARCI, di crescere, di trovare delle soluzioni, di fare semplicemente come chi ci ha preceduto nei secoli e che chi difende il passatismo a oltranza non fa altro che idolatrare e portare a esempio, vale a dire Palladio, Michelangelo, Borromini, Guarini, Mies, e molti altri: tutta gente che ha saputo INNOVARE partendo dal solco della tradizione, rielaborandola, letteralmente DECOSTRUENDOLA, per usare un termine messo all'indice, e dando ad essa un significato nuovo e futuribile.









Non neghiamo che si tratti di una sfida ambiziosa quella che ci si pone di fronte, ma siamo altrettanto convinti che non affrontarla significhi essere dei PERDENTI, sebbene siamo consapevoli che essa è difficoltosa e piena di rischi.
Ma un primo passo per evitare di correre rischi e per rendersi conto che dopo tutto nulla è impossibile, esiste?
Certo, ricominciare a STUDIARE. Forse, oggi, proprio il passo più difficile.

giovedì 22 maggio 2008

All'inferno e ritorno

Breve comunicazione estemporanea giusto per riprendere il filo del discorso e riaprire le comunicazioni. Dopo alcuni mesi di silenzio, notti insonni, revisioni frenetiche, crisi di nervi e una laurea, il blog riprenderà nuovo vigore nei giorni a venire.
Che dire, bentornati.

lunedì 31 dicembre 2007

Una piccola speranza

Un solenne e sincero augurio per un sereno e felice 2008 a tutti i visitatori del blog. All'anno prossimo, cioè a domani...

venerdì 28 dicembre 2007

Accanimento ambientalista o solita demagogia?

Augurandovi in ritardo delle felici feste natalizie, cosa che ci siamo colpevolmente dimenticati a tempo debito e di cui chiediamo umilmente venia, leggiamo e pubblichiamo da Il Gazzettino questi inquietanti interventi di Italia Nostra e degli Amissi del Piovego in merito alle ben note vicende dell'Auditorium da noi ampiamente discusse nei post precedenti. Posizioni inquietanti perché veramente fatichiamo a capirne la pertinenza delle ragioni riguardo a questioni di architettura, soprattutto alla stregua degli accadimenti recenti. Posizioni che non fanno altro quindi che non confermarsi altro che uno stucchevole rastrellamento di consensi di natura, ahinoi, tutt'altro che volta all'interesse comune.

L'INTERVENTO

Italia Nostra ha sempre manifestato la propria netta contrarietà alla scelta di collocare l'Auditorium a piazzale Boschetti. Da oltre cinquant'anni la città attendeva che quest'area e quella delll'adiacente ex-Cledca, nella quale sono in corso i lavori per la costruzione di un autosilo, diventassero finalmente una zona a verde pubblico, secondo le indicazioni del piano regolatore di Luigi Piccinato del 1954. La scelta di Piccinato derivava dall'opportunità di salvaguardare il sistema bastionato, in particolare in questa zona preziosissima per la presenza anche della Cappella degli Scrovegni, e dei resti dell'Arena romana.
Purtroppo la scelta di collocare l'Auditorium in piazzale Boschetti, frutto di decisioni recenti che vedono il concorso di Provincia e Comune, nasce da una logica esclusivamente economicistica senza la minima attenzione alle valenze storico - ambientali del luogo.

Di tutti i progetti presentati al concorso per l'Auditorium, l'unico che teneva conto delle imprescindibili valenze dettate dalla storia era quello dell'architetto Alberto Cecchetto. Il progetto, parzialmente ipogeo, aveva infatti il merito di mantenere a verde gran parte dell'area, integrandosi con il contesto. Questo progetto è ancor più meritevole di apprezzamento se confrontato con gli altri, che, per lo più indifferenti alle valenze del luogo, invadono completamente l'area, e potrebbero essere inseriti ovunque, secondo una progettazione "globalizzato" e "omogeneizzato" buono per ogni dove, trascurando totalmente le mura cinquecentesche e gli Scrovegni, e relegando il Piovego, deprivato delle sue valenze storiche, a un' insignificante canaletta, come si può constatare esaminando i progetti presentati che mostrano immancabilmente e significativamente l'Auditorium sempre sullo sfondo di via Trieste.Ora, con la sentenza del TAR che ha escluso il progetto di Cecchetto, la città rischia paradossalmente di trovarsi con l'Auditorium del secondo classificato, Klaus Kada, comunque di forme e volumi fortemente invasivi. A questo punto è necessario scongiurare la tentazione di concludere in tempi stretti con un progetto qualsiasi, al solo fine di dimostrare l'efficienza dell'Amministrazione. Purtroppo, aver voluto a tutti i costi collocare l'Auditorium a piazzale Boschetti ha reso e rende assai più difficile qualsiasi scelta. Questa esperienza dovrebbe consigliare un ripensamento non solo del progetto, che in ogni caso dovrà secondo noi passare per un nuovo concorso, ma anche della zona dove realizzarlo.

Maria Letizia Panajotti

pres. Italia Nostra, Padova


La storia infinita dell'Auditorium
25-12-2007

Il TAR ha bocciato il progetto di Auditorium dell’architetto Alberto Cecchetto e quindi non sappiamo ancora se il Comune realizzerà il suo progetto o quello di Klauss Kada.

Ricostruiamo di seguito le fasi principali della storia di piazzale Boschetti. Nei due piani regolatori di Padova del 1954 e del 1974 del grande urbanista veneto e padovano Luigi Piccinato l’area di piazzale Boschetti e anche quella dell’exCledca, dove ora si sta costruendo un grande garage sopraelevato, erano previste come verde pubblico.

Nel 1989 il sindaco Paolo Giaretta emana una ordinanza che destina, provvisoriamente ma è ovvio, l’area exCledca a parcheggio a raso. L’assessore all’urbanistica è il socialista Sandro Faleschini. Inizia la lunga fase che porta a cambiare la destina zione delle aree ex Cledca e piazzale Boschetti da verde pubblico a cemento di vario genere.

Nel 2004 Vittorio Casarin presidente della Provincia, il sindaco Giustina Destro e la Regione di Giancarlo Galan si mettono rapidamente d’accordo per coprire piazzale Boschetti con 68 mila metri cubi di cemento dichiarando che i soldi incassati dalla vendita dell'area saranno spesi per i cittadini.

Alla fine del 2003 il sindaco Giustina Destro decide di vendere l’area del PP di proprietà comunale e prevista per costruire l'Auditorium, a dei privati. L’asta viene ripetuta in seguito a una denuncia presentata in Procura della Repubblica da Elio Franzin e Ivo Rossi. Intanto, la Sovrintendenza per i beni ambientali e architettonici decide di vincolare le due palazzine in stile liberty di via Trieste che delimitano piazzale Boschetti.

Tutti vedono che quello che deve essere tutelato e valorizzato è il tratto del Piovego che separa le mura cinquecentesche da piazzale Boschetti mentre il Piovego vero e proprio non interessa a nessuno salvo a quattro disperati di Italia Nostra, Legambiente e Amissi del Piovego. E’ evidente che indicando le due palazzine da salvare si è data via libera al cemento sulle rive del Piovego. E mestamente gli ambientalisti e i piccinatiani ritengono di aver perduto un’altra battaglia giusta. E invece nel luglio di quest’anno c’è stata una bella sorpresa.

La Giuria internazionale dichiara vincitore il progetto dell’architetto Alberto Cecchetto che, a detta di Amissi del Piovego e di Legambiente è diverso dalle altre nove colate di cemento lungo e sopra il Piovego. Tale progetto rispetta sostanzialmente il Piovego e il verde pubblico e cerca di valorizzarne il “genius loci”. Sia ben chiaro che la destinazione giusta per l’area Boschetti era quella a verde pubblico decisa da Luigi Piccinato riconfermata poi perfino dall’assessore al cemento Luigi Mariani. Ora abbiamo un’altra prova che l’errore urbanistico produce anche l’errore architettonico e che la mediazione alta e nobile dell’architetto Cecchetto probabilmente cadrà. E chi se ne frega, ci rispondono i cementieri di tutte le bandiere. Ce ne frega eccome.

Continueremo a ripetere quello che da anni affermiamo in tutte le salse. Non vogliamo essere complici con il nostro silenzio.

Elio Franzin - Presidente onorario Amissi del Piovego


Accanimento terapeutico, verrebbe da dire. Forse a questi signori bisognerebbe ricordare che più di trent'anni di distanza dall'ultima variante del piano regolatore non sono pochi, che un fenomeno urbano deve andare avanti e trovare la sua strada cercando di equilibrare salvaguardia, riqualificazione e modernizzazione, e che le favolette sul ritorno all'età dell'oro ormai servono solo a riempirsi la bocca nei comizi (t'è capì?). Beh, ogni altro commento, oltre che già espresso precedentemente, appare inutile.

P.S.: un ringraziamento a Gioven, forumer di skyscrapercity.com, per aver segnalato i due pezzi.

lunedì 24 dicembre 2007

Una conclusione estemporanea

In attesa di ulteriori sviluppi sulla questione giudiziaria, tentiamo di dare una conclusione prenatalizia del tutto temporanea alla questione sull'auditorium.
Frequentando e leggendo vari forum e blog all'interno della rete, oltre che la stampa cartacea che riporta i commenti dei cosiddetti portatori di interesse, il cui interesse però ha ahimè ben poco a che spartire con criteri di qualità architettonica,uno su tutti skyscrapercity.com, appare chiaro come i giudizi sul concorso da parte di chi, profano o no, si interessa a questioni di ordine architettonico, siano vari e di orientamento differente: chi appoggia incondizionatamente questo o quel progetto, chi evidenzia la poca trasparenza delle vicende legate alla giuria, chi mette il dito sull'opportunità del bando in un'area simile e chi mette in discussione i vincoli stessi del bando, vedi le due palazzine liberty sede della SITA. Quello che però balza agli occhi è come spesso e volentieri tali giudizi si arrestino al "mi piace/non mi piace", evitando quasi sistematicamente di mettere a fuoco determinate categorie di giudizio, e di dare quindi effettive valutazioni di carattere qualitativo. Visto che sembra uno sforzo così inedito, e visto che anche la giuria, come si evince leggendo qui, non pare abbia avuto le idee troppo chiare in merito, proviamo a farlo in questa sede, ben consci della totale opinabilità della posizione espressa e, anzi, con lo scopo di aprire una dialettica con chiunque fosse interessato e magari dissentisse.
Onde sgombrare da subito il campo da insinuazioni di sorta, partendo dal presupposto che è chiaro che "piuttosto che niente è meglio piuttosto", pensiamo si sia tutti d'accordo che qualcosa debba andar fatto. Per cui, se l'alternativa è l'ignavia, che inizino a costruire il Kadauditorium anche subito. Però, se parliamo di architettura, non pensiamo che questo sia il miglior criterio possibile, perché altrimenti di questo passo sceglieremo sempre il meno peggio, accorgendoci sempre ex-post di una soluzione migliore e dicendo sempre "Ma, forse era meglio...". Pensiamo tuttavia che in un'occasione come questa si possa aprire una polemica costruttiva sul senso e, se non sul merito, almeno sul metodo, delle architetture che dovrebbero essere costruite nella nostra città, anche perché si tratta ancora solo di progetti, e quindi di idee. Non è mai troppo tardi per sperare che possa innescarsi qualche circolo virtuoso, per cui, hai visto mai...

Scegliamo di non addentrarci nella prima polemica che ha interessato il concorso, ossia la polemica sulla situazione idrogeologica dell'area. Tutto ciò per un semplice motivo, ossia, parafrasando il buon Cecchetto, perché siamo architetti, e non idraulici, e riserviamo quindi considerazioni di sorta a chi ha i titoli per poterle fare. Ci interessiamo quindi a un'altra questione, ben più immediata, anche se altrettanto spinosa.
E'nostra ferma convinzione che il nuovo auditorium di Padova, soprattutto nell'area in cui è stato localizzato il bando di concorso, rappresenti una straordinaria occasione per dotare la città, oltre che di una struttura colpevolmente mancante da anni come tante altre (palasport e nuovo ospedale su tutti), di una nuova icona di alto profilo dal punto di vista architettonico, che vada ad arricchire e modernizzare l'immagine della "capitale" del Nordest in Italia e nel mondo, affiancandosi a quelli che sono da secoli i simboli della città, vale a dire il Santo, il Palazzo della Ragione, gli Eremitani, gli Scrovegni, l'Università. Per questo motivo quindi, senza arrivare agli eccessi di immagini infernali evocate dal maestro Claudio Scimone (membro della giuria), ci sembra che il nuovo edificio, in quanto punto di attrazione, debba necessariamente essere visibile e quindi assolutamente fuori terra. E crediamo che considerazioni relative al luogo, alla vicinanza del Piovego e quindi alla necessità di un intervento in punta di piedi non siano in alcun modo in contrasto con questo aspetto, anzi, rappresentano il lato più affascinante della sfida; e tutte quelle opinioni manichee, da tutto o niente, tipiche di associazioni e comitati che cavalcano solo cavalli di battaglia senza entrare nel merito delle questioni, onestamente ci sembrano, con tutto il rispetto, solo SPAZZATURA. Sì, perché ci sembra quantomeno singolare che Legambiente e Amissi del Piovego (lodevoli in altri frangenti) si scaglino contro auditorium in superficie e monumenti all'11 settembre in nome del ritorno all'età dell'oro pre-automobilistica, quando di fronte all'area dell'auditorium (ex-Cledca)è in costruzione un megaparcheggio multipiano nel silenzio-assenso generale. In pratica ci troveremmo con un auditorium costruito sottoterra per guadagnare pochi metri quadrati di verde (che attualmente, e da decenni, non c'è), e un parcheggio multipiano costruito fuoriterra perché si sa che, a Padova, a piantare un badile esce acqua. La contraddizione ci sembra palese per cui preferiamo non infierire...
Ci sembra quindi assai più interessante considerare, come già evidenziato, l'occasione che questo concorso offriva, ossia quello di realizzare un brano di città in un luogo di connessione, tra l'altro di storica vocazione transitoria e quindi di altissima frequentazione, tra il nucleo medievale della città, cioè via Porciglia e il complesso degli Eremitani, e la city più moderna delle banche e degli edifici direzionali, che in questi anni andrà ad arricchirsi del nuovo Pp1, progettato da Boris Podrecca; brano di città che, oltre alle caratteristiche testè evidenziate, si caratterizza per la spettacolarità e delicatezza del luogo, vale a dire un'ansa del Piovego, per la destinazione d'uso del manufatto, la migliore possibile quanto a possibilità di espressione dell'estro creativo di un progettista, e per un ulteriore vincolo, a nostro parere del tutto opportuno, di riuso e riconversione delle due palazzine liberty poste a lato della strada, che, pur di modesto valore, costituiscono una sorta di ancoraggio, di testa di ponte con la città esistente. In altre parole, appare evidente la fortissima VOCAZIONE URBANA che dovrà avere il nuovo progetto, la cui immagine dovrà in qualche maniera farsi carico di tutte le variabili elencate sinora. E'per questo motivo che il nuovo edificio, oltre a essere fuoriterra, dovrà essere prima che un manufatto, un LUOGO, un FATTO URBANO, che per forza di cose non dovrà però limitarsi ad essere un capriccio, un esercizio di stile magari ardito e ingegnoso, ma incapace di instaurare una dialettica di un certo tipo con il contesto.
Alla luce di queste riflessioni, ci permettiamo di esprimere alcune considerazioni sui 10 progetti finalisti del concorso, o perlomeno sui più significativi, fatta salva comunque un'alta, a nostro avviso, qualità media. Appare evidente come si possano distinguere tra questi due orientamenti precisi, rispondenti anche alla poetica personale di ciascun progettista: chi si concentra quasi esclusivamente al manufatto in sé, considerandolo come un oggetto autoreferenziale che non trova legami con il luogo se non a livello superficiale, e chi cerca di trovare legami con il luogo e di instaurare relazioni forti con il contesto, pur partendo evidentemente da background culturali comnpletamente differenti; nel mezzo troviamo poi alcune proposte ibride, che non prendono una strada ben precisa e rimangono sospese, pur nella qualità della loro proposta.
Scorrendo i vari progetti, appare evidente come ai primi appartengano proposte come quella di Ben Van Berkel, quella di Hermann Hertzberger e quella anche del progetto attualmente vincitore, Klaus Kada. Tre proposte affascinanti e interessanti, considerando il manufatto in sé, ma che prestano il fianco a diversi possibili attacchi se si analizza il legame con il contesto. Entriamo nel dettaglio.
Il progetto di Van Berkel, nella migliore tradizione di UNStudio, è senz'altro il più accattivante tra i progetti in gara, non fosse altro per il clamoroso favore riscontrato tra i visitatori della mostra del Salone.







E'un'edificio dalla volumetria non convenzionale, certo armoniosa e sicuramente spettacolare, ricca di reminiscenze celebri come l'Opera di Sidney, e che ha tra l'altro il pregio non da poco di includere una consistente porzione di verde nella sistemazione degli spazi esterni. Ci sembra tuttavia che si tratti di un complesso sin troppo grande per l'area in questione, un'architettura che, pur se i rendering presentano delle viste affascinanti dal Piovego, meriterebbe senza dubbio un respiro decisamente maggiore per poter essere essere goduta al meglio, proprio tra l'altro, come la sua antesignana australiana cui tanto sembra ispirarsi; è evidente, tra l'altro, la volumetria eccessiva nel porsi chiaramente fuori scala rispetto alle palazzine liberty lungo strada, non comunicando così una sensazione di integrazione che apparirebbe invece quanto mai opportuna.



Poco interessante appare comunque la scelta di rifarsi in maniera tanto palese a un riferimento straniero già esistente, che mal sembra conciliarsi con la necessità di realizzare un'icona specifica di Padova e della sua immagine, e altrettanto poco caratterizzata appare, dalla pianta, la sistemazione degli spazi esterni e il loro aggancio al tessuto esistente.



Altrettanto ingegnosa appare la proposta di Hermann Hertzberger, più vicina a una matrice razionalista teutonica che viene poi sconfessata nella fantasmagorica sistemazione interna, non priva di un certo fascino quasi piranesiano. Da sottolineare la sistemazione a verde degli spazi esterni, volti a creare un continuum con il verde al di là del Piovego, e il rivestimento dell'edificio, che con la sua leggerezza, molto vicina ad atmosfere bureniane, stempera la solennità del parallelepipedo dando al complesso il carattere quasi di un'installazione.









Anche in questo caso, però, è evidente come le attenzioni del progettista fossero rivolte molto di più all'edificio che al suo dialogo con il contesto. Lo si evince dalle dimensioni, anche qui decisamente eccessive rispetto al sito e all'edificato più prossimo, vale a dire le palazzine, e lo si evince soprattutto dal suo trasbordare fin sopra il Piovego, oscurando di fatto quello che dovrebbe in ogni caso rimanere il vero protagonista di ogni scorcio dell'area, vale a dire il canale. Non appare poi coerente, per quanto interessante, il contrasto tra la monumentalità dell'edificio e la vacuità del suo rivestimento, che ne indebolisce in qualche modo il richiamo e la riconoscibilità.



Il progetto di Kada&Wittfeld, a tutt'oggi vincitore, quanto a immediatezza e riconoscibilità è probabilmente il migliore di tutto il lotto dei finalisti. Aiutato anche da una presentazione estremamente efficace, affida al dialogo tra il volume della sala e la mirabolante copertura di cemento armato traforata, che sembra ammiccare al primo Niemeyer e addirittura a Ronchamp, gli esiti estetici della propria proposta. E'una proposta minimalista per molti aspetti, non ultimo la monomatericità, ma che presenta al contempo elementi estremamente ricercati, come il motivo vegetomorfo della copertura.









Tanta eterea e diafana eleganza esprime però più autocompiacimento che interesse a farsi portatrice di valori condivisi. Appaiono deboli i legami con il contesto (non c'è traccia della sistemazione degli spazi esterni), così come non ci convince minimamente il parallelo citato in sede di relazione tecnica tra la copertura e i portici patavini, assolutamente distanti come struttura, misure e tipologia; debole appare anche il legame con il canale, affidato esclusivamente all'aggetto della copertura. La copertura di calcestruzzo poi, interessante da un punto di vista plastico, si presenta come unico medium di caratterizzazione dello spazio esterno: in questo ruolo, appare enorme e monotona, e poco adatta a creare specificità. Poco convincente, per quanto insolito e accattivante, appare il motivo vegetomorfo della copertura, più vicino a un brillante capriccio molto PoMo che a un effettivo, e in questi termini banale, richiamo alla vegetazione antistante, così come da relazione di progetto.





Si parlava poi dei progetti "a metà del guado". Tra questi, a nostro modo di vedere stanno la proposta di Arata Isozaki e quella di David Chipperfield.
L'illustre giapponese coniuga come al solito la purezza e la riconoscibilità dei suoi volumi con la fantasmagorica leggerezza del rivestimento. Un'architettura fatta di pochi ma chiari elementi, che pur nella loro dichiarata autonomia figurativa, si adagiano dolcemente sull'intorno: basti pensare al portico, al rapporto con le palazzine, o alla trasparenza dei volumi dedicati al foyer.





Il maggior punto debole di tutta la composizione sembra essere però il suo elemento maggiormente caratterizzante: stiamo parlando dell'anfiteatro all'aperto, mirabilmente e ingegnosamente posto a legame indiossolubile ed effettivo con il canale, ma che non trova altrettanto compiuta giustificazione all'interno delle ragioni compositive del progetto. Da qui la sensazione di sospensione, da molti considerata però copme fatto positivo, come testimonia il favore raccolto presso il pubblico da parte dell'anfiteatro.
Sensazione simile viene trasmessa dalla proposta di Chipperfield. Famoso per la misura con cui riesce a inserire le sue opere ovunque mantenendo costante e inconfondibile il suo stile austero ed essenziale, il progettista inglese stavolta propone un'opera che, pur nella sua non invasività e nel suo carattere fortemente urbano, espresso dalla molteplicità dei piani di fruizione potenzialmente capaci di ospitare numerose e flessibili oggettivazioni secondarie, non sembra avere un'immagine così forte da poter diventare un'icona riconoscibile.



Veniamo dunque all'ultimo gruppo di progetti. Si tratta delle soluzioni a nostro modo di vedere più interessanti e compiute, in quanto affrontano la questione in modo completo e coerente, integrando la riflessione sugli aspetti compositivi con una puntuale investigazione delle relazioni con il contesto. E a questo gruppo appartengono a nostro avviso il progetto di Juan Navarro Baldeweg, di Manuel Aires Mateus, di Archea, di Odile Decq e anche di Cecchetto, come evidenziato nel post precedente. Detto dunque di Cecchetto nel post appena citato, veniamo brevemente agli altri.
La proposta di Archea è indubbiamente tra le più interessanti e originali. Il gruppo fiorentino che fa capo a Marco Casamonti concepisce un organismo edilizio la cui forma, senza fronzoli mimetici o forzature di alcun tipo, trova la sua essenziale ragion d'essere nella forma urbis del luogo. Lo si vede chiaramente dall'originale sistema di distribuzione delle sale e dei percorsi, totalmente improntati a cercare di relazionarsi direttamente ai due grandi palcoscenici del luogo, vale a dire la strada e il canale, realizzando due fronti porticti di uguale dignità che costituiscono un'interpretazione assolutamente pregnante della morfologia del luogo. Raffinato è anche il rapporto con le palazzine liberty, sopraelevate di un piano ma non sopraffatte figurativamente, e con cui il confronto volumetrico non è soverchiante.





Sulla stessa lunghezza d'onda è la proposta di Juan Navarro Baldeweg. Fedele al suo stile misurato e composto, il maestro spagnolo propone un edificio dall'immagine forte e compatta dall'esterno, caratterizzata da elementi semplici e riconoscibili (i volumi, il portico, la tettoia sulla strada), ma estremamente permeabile e fluido all'interno, permettendo così allo spazio urbano di penetrare in esso e di informarne la forma e la distribuzione. Anche in questo caso è evidente l'attenzione al rapporto con il contesto, con il chiaro intento di inserirsi, al massimo di affiancarsi, e mai di imporsi.











Originale anche se eccessiva appare la proposta di Aires Mateus, di cui non disponiamo purtroppo di immagini. Si tratta di un progetto eccessivo perché esageratamente frammentato: il progettista portoghese concepisce uno spazio molto copmplesso, facendo letteralmente entrare la città all'interno dell'edificio e realizzando una grande molteplicità di spazi a diversi livelli di idioritmia. Nel far questo, però, lo spazio interno dell'edificio rischia di dissolversi, così come rischia di dissolversi quindi anche l'immagine dell'edificio stesso, e quindi la sua riconoscibilità.
Ultimo di questa carrellata arriva il progetto di Odile Decq. E' un progetto estremamente articolato, che nonostante tutto non comunica una sensazione di pesantezza o ridondanza come le dimensioni potrebbero far pensare, ed è la soluzione che a nostro modo di vedere rappresenta il miglior compromesso tra le peculiarità del luogo e quelle del manufatto che il luogo deve ospitare. L'edificio viene infatti dilatato sino a ricoprire gran parte del sito, lasciando comunque una cospicua porzione di superficie scoperta sistemata a verde in prossimità del canale: nel suo espandersi a dismisura, il costruito però acquista una struttura gerarchica la cui scala supera quella architettonica, in cui le singole sale di ascolto divengono volumi puri, veri e propri edifici a sé stanti, e il foyer diviene una gigantesca piazza coperta dal rivestimento vetrato completamente trasparente, e in cui la luce naturale entra anche dall'alto attraverso le numerose aperture, anch'esse vetrate, praticate nella plastica copertura. Si realizza così uno spazio sensazionale ed estremamente confortevole, veramente urbano a tutti gli effetti, in cui i percorsi verticali si intrecciano a quelli orizzonatli, e in cui la varietà degli scorci rende mai scontata la sua percezione. Completano poi l'opera la straordinaria eleganza nella trattazione dei volumi, che ricorda atmosfere organiciste e neoplastiche, il rapporto con le palazzine, totalmente reiterpretate e da cui l'edificio, attraverso la copertura, sembra scaturire, e l'ambizioso colore rosso dei volumi delle sale, che dà riconoscibilità immediata a tutto l'insieme, oltre a essere un elemento figurativo la cui padovanità è al di sopra di ogni ragionevole dubbio. Inutile nascondere comunque, onde non sembrare qualunquisti e del tutto agnostici, cosa del tutto esecrabile, oltre che vile, in questi casi, che è anche il progetto che maggiormente riscontra il favore di chi scrive.











Un'ultima considerazione, che ci pare quanto mai pregnante. E'stata spessa tirata in ballo nelle varie sedi di discussione, in seguito alle vicissitudini metodologiche e burocratiche di tutta la vicenda concorsuale, la questione relativa allo strumento e alle modalità di giudizio relativamente ad occasioni come quella di cui ci stiamo occupando, e ci si è spesso interrogati sull'idoneità o meno di formule concorsuali simili e sull'eventuale ricorso a consultazioni popolari, in luogo di consulenze di élite di "saggi". Anche qui, crediamo vada fatto un po' d'ordine.
E' demagogico e anche un po' fariseo pensare di decidere le sorti architettoniche e urbanistiche di un'area attraverso un referendum, per un motivo molto semplice: la gente comune non ha il discernimento necessario per prendere una decisione in merito e scegliere tra questo e quel progetto (lo ha detto anche Vittorio Gregotti, che pure non è esattamente tra i nostri progettisti preferiti). Ci sono modi molto migliori per innescare un fenomeno che va tanto di moda oggi, ossia la PARTECIPAZIONE. Si possono organizzare tavoli di discussione, isolare delle categorie di indagine in merito al progetto (interrato-non interrato, senza palazzine-con le palazzine, ecc.), esporle alla gente e agli eventuali portatori di interesse illustrando i pro e contro tramite dei professionisti non di parte, raccogliere pareri, impressioni e quant'altro e redigere un documento di sintesi opportunamente filtrato e reso coerente che poi possa costituire da guida per i progettisti, e soprattutto, per il bando di concorso. E'stata condotta un'esperienza molto simile con la ben nota vicenda delle Torri Gregotti all'Arcella, questione in cui ci imbatteremo prossimamente: è sotto gli occhi di tutti il palese fallimento, palese sin dalla formulazione dei quesiti, del referendum del 18 giugno 2006, ed è altrettanto evidente che invece il tavolo di concertazione per l'elaborazione del P.A.T. organizzato nel quartiere ha dato dei risultati magnifici in termini di indicazioni progettuali e soprattutto di creazione di consapevolezza condivisa presso i non addetti ai lavori. Procedimento costoso e dispendioso certo, anche economicamente, però sicuramente più utile di molti altri sprechi perpetrati dalle pubbliche amministrazioni, e che sicuramente eliminerebbe sia i costi aggiuntivi dovuti a ritardi, ricorsi, polemiche e controricorsi, sia i tristissimi teatrini tipo quello cui si sta assistendo a proposito dell'auditorium. In fondo, poi, si tratterebbe di recepire la tanto nominata legge 11/04, mica l'Editto di Rotari...Certo, poi, se in sede di giuria avvengono cose strane com'è sin troppo evidente sono successe per l'auditorium, lì c'è poco da fare. Ci si può chiedere poi: "come si fa a far partecipare gli incompetenti?" Semplice, rendendoli meno incompetenti. E' chiaro che bisogna tenere conto del parere di tutti. Però perché ciò sia utile, è altrettanto chiaro che tutti devono essere in grado di dire qualcosa avendo concezione di causa. Se tu chiami un architetto a progettarti l'arredamento di casa, sicuramente non sei tecnicamente competente, ma altrettanto sicuramente sei consapevole di ciò che ti serve, di ciò che ti piacerebbe e delle conseguenze delle tue scelte nella tua vita domestica, perché ne hai un riscontro immediato e quotidiano. Ciò è molto meno semplice in un progetto urbano, perché il singolo non addetto ai lavori non ha le competenze per valutare ricadute sul medio-lungo periodo e su ambiti che sfuggono al singolo esaminatore (anche competente, basta vedere l'esercito di tecnici e consulenti che si cela dietro ogni singolo progetto di concorso anche a scala non esattamente territoriale).
Perciò, l'unico sistema, o meglio, il meglio percorribile, meglio ancora, il primo passo, qual è? Fare CORRETTA E SANA INFORMAZIONE, e non demagogica strumentalizzazione politica come purtroppo sempre accade in questi casi (ambientalisti, no-tav e progetto Libeskind insegnano), sia da parte della pubblica amministrazione sia da parte dei comitatini più o meno spontanei, tipo il Comitato Ansa Borgomagno, dove poi si scopre che in realtà i sobillatori sono militanti del Pedro che cercano solo di evitare lo sfratto da un edificio occupato abusivamente (tra l'altro), altro che nobili principi...
Il problema non è che a Padova manchi un interlocutore, che possa porsi positivamente di fronte a dei progettisti. Le persone competenti ci sono, via, e se si parla di interlocutore come opinione pubblica, forse spontaneamente non c'è da nessuna parte. Il problema è che a Padova MANCA LA VOLONTA' di porsi come interlocutore privilegiato, perché purtroppo chi guida le menti, sia al potere che all'opposizione, fa tutto, ma proprio tutto, per mero tornaconto elettorale. E intanto, sembra un luogo comune, ma è così, le occasioni perse aumentano.