martedì 19 agosto 2008

Tra modernisti e passatisti: riflessioni sulla terza via

Riprendiamo il filo di questo blog dopo qualche tempo di oblio piuttosto forzato, con la promessa di dargli uno sviluppo conrinuo e coerente con la nuova stagione lavorativa ormai alle porte. Tempi di oblio materiale del blog, non certo di inerzia riguardo le cose che ci interessano da vicino, anzi, l'intraprendere nuove situzioni lavorative ci ha portato ad entrare in una notevole varietà di situazioni, che man mano andremo a sviscerare.
Giusto per riprendere le nostre argomentazioni, mantenendo intatto lo spirito fortemente critico e indagatore di questo blog, proponiamo qui uno spunto di riflessione riguardo un argomento vecchio forse quanto l'architettura, ma quanto mai attuale, vale a dire la disputa tra passatisti e modernisti. Confessiamo che le righe che andiamo a proporvi non sono proprio freschissime, ma sono il risultato di una discussione di qualche mese fa tenuta in questo blog nell'immediato post-laurea; ciononostante, l'imperversare nei media, come mai negli ultimi anni, di questioni riguardanti il nuovo sviluppo delle città, dall'Ara Pacis, a City Life, fino all'Auditorium di Padova e al progetto vincitore per la nuova Torre della Ricerca, sempre a Padova, di Vittorio Gregotti, oltre al divampare della polemica contro le archistar che, in nuce, contiene in sè le ragioni dei temi che andiamo ora a trattare, ci ha indotto a riportare quanto segue.

Crediamo che ci sia un po' di verità in entrambe le posizioni. E' vero che, come è spesso successo quando una voce innovativa si è stagliata sopra il coro nel secolo scorso e anche prima, l'interpretazione banale e un po' facilona delle invarianti zeviane e comunque di tanta, BUONA, architettura col senno di poi definita "decostruttiva" ha portato a una deriva di senso che già oggi mostra tutta la sua debolezza, al punto da trasformarsi da architettura in puro glamour da portare negli spot pubblicitari, tipo nuvole e quant'altro.







E' vero altresì però, che se è sbagliato figurativizzare la disarmonia solo perché la società contemporanea vive un momento di difficoltà sotto molti punti di vista, non si può fare finta che non sia cambiato nulla. E' vero che se il centro storico piace ancora oggi un motivo ci sarà, ma è anche vero che le sensibilità cambiano, e che una società che vive il suo tempo abbia il diritto di esprimersi, con rispetto sia chiaro, ma secondo la propria sensibilità, e qui entra in gioco la preparazione culturale e il ruolo del progetto di architettura, tutt'altro che esaurito a nostro modo di vedere, checché ne dica Andrea Branzi o chi per lui.
E qui torniamo al dilemma. Esiste una terza via? Noi crediamo di sì. Purtroppo oggi la cultura architettonica di massa, che purtroppo sta entrando anche nelle università con movimento esattamente opposto rispetto a quello che dovrebbe essere, fagocita tutto ciò che rompe gli schemi rispetto a un palazzo rinascimentale e lo bolla come "decostruttivo". E qui purtroppo nasce un tourbillon veramente vizioso, in cui la faciloneria dell'interpretazione e la deriva formale cui si accennava poco fa si rincorrono incessantemente, con il risultato da un lato di offuscare le menti, e dall'altro di popolare le riviste di architettura di ameboidi e quant'altro.
Va fatto un po' d'ordine. La dicotomia storia-decostruzione secondo noi è un sofismo: non può esserci decostruzione senza storia. Anzi, è proprio da una conoscenza approfondita della storia che può partire una seria decostruzione, che, semplificando rozzamente, altro non può essere che una ricodificazione decontestualizzata, o, aggiustando il tiro, artatamente ricontestualizzata. Mi pare che lo stesso Eisenman in "Notes on conceptual architecture: toward a definition" e "The futility of objects" lo dica chiaramente.





E se vediamo le cose in questa maniera, vedremo che la casa Giuliani-Frigerio, come molte altre di Terragni, è eminentemente decostruzionista, così come lo sono molte architettura manieriste del '500 veneto, le prime chiese del Seicento romano, piuttosto che alcune delle opere meglio riuscite di Richard Meier (non l'Ara Pacis...), Rafael Moneo o Alvaro Siza.













Il vero problema, secondo noi, è che manca oggi, soprattutto nelle università italiane, un vero dibattito su questi temi, sui nuovi autori (nuovi...degli ultimi trent'anni), un dibattito che parli di estetica del contemporaneo in senso di METODO, in senso veramente e intrinsecamente PROGETTUALE, senza più baloccarsi con lo storicismo fine a sè stesso o riempirsi la bocca di discorsi in architettese che, scava scava, alla fine si risolvono quasi sempre nel gusto personale di chi parla. Fino a quando non ci sarà una vera e matura sperimentazione progettuale fondata imprescindibilmente su uno studio cosciente di testi teorici finora sconosciuti (Zevi, Tafuri, Eisenman...chiedete a uno studente del terzo anno se ha mai letto qualcosa di questi qui) e su una conoscienza precisa dei riferimenti storici, resteremo, a nostro modo di vedere, sempre impigliati in un dilemma vecchio come il mondo e ormai stantio, ma soprattutto continueremo a vedere ameboidi e affini, a sparare anatemi (sacrosanti) su di essi e a credere che non vi sia alternativa a questi se non lo storicismo cieco o il revival stile Krier e molti altri Po-Mo.
In definitiva, ci riconosciamo molto in una chiosa di Salvatore D'Agostino: "Le nostre beneamate pietre cominciano a pesare perché fissandole abbiamo dimenticato l'arte del costruire." Aggiungiamo che non fissiamo solo le nostre beneamate pietre, ma anche la nuova architettura glamour che i massmedia e le archistar cercano di propinarci. Credo che sia venuto il momento di smetterla di rimanere lì a fissare, ma sia ora di ricominciare a progettare.

La soluzione indicata non è però progettare e progettare in termini quantitativi, questo è uno slogan, e in quanto slogan può essere semplicistico e fuorviante. Sappiamo bene che certe regole dell'architettura sono state scritte prima del XX secolo, e siamo tutti abbastanza seri per capire che non è colpa degli antichi se non avevano cemento e ferro, ma è proprio questo il punto: noi ce l'abbiamo, ed è pertanto giusto che agiamo di conseguenza. Per nostra natura detestiamo le posizioni manichee: non ci permetteremmo mai di dire che l'estetica che sta dietro a Krier sia assurda, e siamo altresì convinti che una sua casa sia ben più vivibile di un arzigogolo di Libeskind. Non è questo il punto o perlomeno non ci interessa: anzi, forse questo è proprio l'impasse da superare. Non siamo di principio né per Krier, né per Libeskind: diciamo solo che perdersi in una dicotomia vecchia come l'architettura tra passatismo e modernismo senza rinnovare gli strumenti progettuali a nostra disposizione, o perlomeno senza provare a farlo, in un momento in cui c'è chi sostiene che in edilizia si sia detto tutto o quasi, significa veramente per noi la morte della professione e del disegno di architettura. E' evidente che la qualità delle città è sempre più bassa, e siamo profondamente convinti che oltre a una serie di ragioni molto poco poetiche e assai più "terra-terra" che chi lavora conosce bene, la causa di questo sia un modo di procedere ormai stantio, che si è allontanato via via dall'evoluzione del mondo e della società, almeno in Italia. E, guardacaso, l'università ne è diretta testimone. Possibile che, al primo dello IUAV di non troppi anni fa, l'unico spunto di riflessione teorica non derivante da ricerche autodidattiche fosse l'inflazionatissimo (ma imprescindibile, per carità, anzi, meno male che c'era almeno quello) confronto tra "Manière" e "Der Stadtebau", e poi basta negli anni successivi?
Allora correggiamo lo slogan: ricominciamo a pensare a cosa progettiamo, ricominciamo a studiare, e ricominciamo a considerare il progetto di architettura come un'occasione di ricerca, almeno all'università. E allora ci accorgeremmo che la "terza via" c'è già, c'è sempre stata e molti l'hanno percorsa prima di noi, anche prima del XX secolo, solo che negli ultimi sessant'anni abbiamo perso il tempo, o forse la voglia, o forse il coraggio, di seguirla. O forse, più tristemente, non conviene più economicamente.

C'è poi un ulteriore dato che conferma come l'arroccarsi dietro posizioni consumate non faccia evolvere il dibattito e pertanto la ricerca della qualità, ma anzi, inneschi un circolo vizioso senza via di scampo: il fatto che la dicotomia tra passatismo e modernismo abbia ormai trasceso i confini dell'architettura e sia diventata luogo di scontro nella ricerca del consenso, di natura squisitamente politica. Lo si vede dal fiorire di comitati e comitatini più o meno ambientalisti, o dalle incresciose vicissitudini legate alle consultazioni popolari (sic): tutte occasioni in cui si verifica esattamente ciò di cui precedentemente si paventava il rischio, vale a dire prese di posizione sbandierate senza solide argomentazioni alle spalle, disinformazione collettiva, e, infine, l'immobilismo, la non soluzione ai problemi, il male peggiore.
La cosa veramente grave però è che tutto ciò impedisce tra l'altro il diffondersi di una cultura architettonica condivisa, e gli architetti in questo sono relegati sempre di più nel ruolo di santoni nerovestiti dai quali è bene guardarsi in favore del più diligente e meno costoso geometra, con i devastanti effetti in termini di saturazione del mercato e lavoro sottocosto che tutti tristemente conosciamo; e ciò che ha del paradossale, per non dire grottesco, è che sono proprio degli architetti a sostenere questo, nel loro, peraltro condivisibile, scagliarsi contro le archistar!
Ora, è vero che il problema esiste, che se non si sta attenti l'architettura degli ameboidi rischia di essere come un blob che inghiotte le nostre città, è vero che le facoltà di architettura producono sempre di più personaggi dallo spirito critico quantomeno da verificare, ma la soluzione del problema NON PUO' essere azzerare tutto. Non lo accettiamo. Se siamo architetti e siamo consapevoli dell'importanza di quello che è il nostro principale strumento di lavoro, vale a dire il DISEGNO DI ARCHITETTURA, abbiamo il DOVERE DI NON ACCONTENTARCI, di crescere, di trovare delle soluzioni, di fare semplicemente come chi ci ha preceduto nei secoli e che chi difende il passatismo a oltranza non fa altro che idolatrare e portare a esempio, vale a dire Palladio, Michelangelo, Borromini, Guarini, Mies, e molti altri: tutta gente che ha saputo INNOVARE partendo dal solco della tradizione, rielaborandola, letteralmente DECOSTRUENDOLA, per usare un termine messo all'indice, e dando ad essa un significato nuovo e futuribile.









Non neghiamo che si tratti di una sfida ambiziosa quella che ci si pone di fronte, ma siamo altrettanto convinti che non affrontarla significhi essere dei PERDENTI, sebbene siamo consapevoli che essa è difficoltosa e piena di rischi.
Ma un primo passo per evitare di correre rischi e per rendersi conto che dopo tutto nulla è impossibile, esiste?
Certo, ricominciare a STUDIARE. Forse, oggi, proprio il passo più difficile.

1 commento:

Salvatore D'Agostino ha detto...

Davide,
aspetto i tuoi prossimi post.
Facciamo crescere questo ambizioso blog barthesiano.
A presto Salvatore D'Agostino.